15.228 km in 45 giorni
ITALIA - SAMARCANDA - ITALIA
Foto di Dino Mazzini e Giovanni Lamonica.



Non parli russo? (govorish po russki ?)
La domanda e' ricorrente, con i doganieri o con le ragazze. In questo viaggio di oltre 15.000 km in 45 giorni attraverso 9 stati dell'ex-URSS e' infatti quasi impossibile comunicare bene con qualcuno se non si conosce il russo, lingua di chi li ha dominati per almeno 70 anni e che ormai è l'unica cosa che hanno questi paesi in comune.


L'autore del viaggio e del racconto.




un sogno realizzato.

 

Siamo talmente abituati all'idea di una Europa unita, che abbiamo dimenticato quali sono i confini del nostro continente. Tra noi quasi ci mettiamo a litigare, appena entrati in Georgia, dal confine Turco di Hopa sulle rive del Mar Nero. La Georgia e' in Europa, sostengono alcuni. No, e' in Asia, sono convinti gli altri. Ciascuno difende le proprie convinzioni tirando in ballo gli argomenti più strani: affinità culturali, religiose e somatiche degli abitanti di questo paese con noi europei; questioni geografiche di mari e monti che dividerebbero il nostro continente dall'Asia; c'è chi addirittura arriva a sostenere l'appartenenza di questa nazione all'Europa perchè la sua assicurazione e la carta verde in quel paese sono valide !! E qualcun altro che dice che la Georgia e’ in Europa perchè nel sito internet della Lonely Planet la si trova sotto a quella voce, e non sotto alla voce “Asia”. Nessuno la vuol prendere persa, ci rendiamo conto ad un certo punto che è meglio sospendere la discussione e rimandare al nostro ritorno la decisione su chi aveva ragione. Scopriremo quindi che, almeno da un punto di vista squisitamente geografico, la ragione era solo di alcuni: l'Europa l'avevamo lasciata a Istanbul. E dopo aver percorso le strade di Azerbaijan, Turkmenistan ed Uzbekistan, l'avremmo ritrovata solo superato il fiume Uralsk che scende dalla catena degli Urali, al nostro ingresso in Russia, dopo aver attraversato il Kazakistan. Nello specifico, e' lo spartiacque delle montagne del Caucaso il confine che pone, a sud di questo, la Georgia in Asi. Nonostante la religione cristiana ortodossa di tradizione millenaria, ed i tratti somatici dei suoi abitanti, due aspetti entrambi tipicamente europei.


IL VIAGGIO FINO A TASHKENT (29 LUGLIO - 22 AGOSTO 2006)

Appena entrati dalla frontiera turca di Hopa sul Mar Nero, la GEORGIA si presenta a noi viaggiatori come un paese distrutto, quasi che fosse appena uscito da una guerra. Nel lungomare, grandi palazzi in rovina con macerie sparse ovunque, che nessuno pare preoccuparsi di demolire definitivamente, almeno per sistemare i bei parchi che le circondano. Lugubri resti che raccontano comunque di quanto erano sfarzosi. E che lasciano immaginare quante persone hanno ospitato, quando quel lungomare, insieme alla Crimea, era il luogo di villeggiatura estivo dei benestanti dell'impero zarista e poi dei funzionari comunisti. Sono però le strade quelle che più sembrano aver sofferto di questa “guerra” immaginaria, fatta di improvvisa mancanza di risorse economiche private e pubbliche dopo il tracollo dell’Unione Sovietica. Sono le strade asfaltate più malridotte che abbiamo visto, nel pur nostro importante girovagare, anche ad Est. Ne restano percorribili senza troppo problemi solo alcune, le principali verso la capitale. Tutte le altre sono un groviera di voragini, profonde a volte anche mezzo metro, tra cui è indispensabile “zigzagare” quasi a passo d’uomo, se non si vuole distruggere tutto o peggio farsi male. Scopriamo qui quanto sia indispensabile avere un assistenza locale. Le nostre cartine, pur diverse tra loro, sono assolutamente inaffidabili: strade segnate come principali che sono ormai in uno stato quasi non transitabile, e strade segnate invece come secondarie che sono invece mantenute in discrete condizioni. Queste sono le uniche che possiamo fare, ed è il primo imprevisto che abbiamo dopo otto giorni da quando siamo partiti per il nostro viaggio verso est: siamo costretti a cambiare l’itinerario pianificato prima della partenza. Dobbiamo passare da Kutaisi e fare così un lungo giro per raggiungere l’hotel che avevamo prenotato a Bakuriani, situato nelle bellissime e selvagge montagne ai confini con l’Armenia. Sulle strade, oltre alle buche, un’altra situazione che rappresenta un pericolo ma nello stesso tempo rende questo paese affascinante e diverso da tutti gli altri è rappresentata dalla incredibile quantità di bestiame errante che si sposta invadendo continuamente la carreggiata, anche in gruppi numerosi. L’andatura del nostro gruppo di motociclisti è così forzatamente lenta, e arriviamo all’hotel che è già notte fonda. Una situazione che aggiunge tensione all’avventura di sapersi dentro a foreste selvagge popolate ancora da orsi, lupi e altra fauna che ormai in Europa è confinata in aree invece molto ristrette.













L’indomani mattina scendiamo verso la capitale, ma prima di arrivare a Tbilisi merita una nostra sosta la città natale di Stalin, Gori. In tutta l’ex Unione Sovietica, ad ornare le piazze, sono ormai pochi i monumenti dei capi di stato comunisti. Le statue di Stalin erano state rimosse da molti luoghi già da prima della caduta dell’URSS, ma qui a Gori, nella sua città natale, c’è ancora il culto di questa personalità. A parte la piazza dove troneggia una sua gigantesca statua, c’è un museo dove sono raccolti tutti i cimeli e dove è accuratamente descritta l’epopea del dittatore, . La direttrice-guida del museo ci spiega che il capo di stato protagonista della vittoria russa sulla Germania Nazista (che per i russi non e’ la “seconda guerra mondiale” ma è la “grande guerra patriottica”) non è sepolto qui dove è nato, ma giace nel piccolo cimitero dietro al Mausoleo di Lenin, nella Piazza Rossa a Mosca. Nel museo, dovunque ci sono cartelli che proibiscono di filmare e fotografare, ma la guida insiste perché noi lo si faccia, in cambio ovviamente di una piccola mancia per lei. In pochi raccogliamo l’invito: il museo anche se interessante è comunque un po’ lugubre. Nel cortile del museo, anche il vagone ferroviario dove Stalin viveva durante la guerra.
Intorno a Tbilisi ci sono importanti monasteri, con la inconfondibile architettura di grandi conci di pietra murata a secco, ed interni molto austeri. I più belli sappiamo comunque che non sono qui, ma lontano dalla capitale, sulle montagne del Caucaso dove, tra l’altro, in molte aree ci sono importanti situazioni di intolleranza all’unità del paese e solitamente non sicure per i turisti. Noi comunque abbiamo anche poco tempo, il nostro viaggio e’ quasi all’inizio. All'interno, incontri interessanti con giorgiani in pellegrinaggio religioso che portano agnelli in omaggio ai monaci.

Alla frontiera secondaria di Lagodechi lasciamo la Georgia ed entriamo in AZERBAIJAN. Alla dogana, già si capisce che la situazione politica del paese, seppur tranquillissima, è molto diversa da quella che ci si aspetta normalmente da una repubblica. Negli spazi di attesa, appese ai muri, decine e decine di foto dell'ex-Presidente e di quello attuale, ripresi in tutte le occasioni. Viene da pensare però più ad una reggenza che ad una presidenza: sono padre e figlio !! Ci accompagneranno fino al momento di lasciare il paese, visto che le strade sono tappezzate di enormi cartelloni con le loro belle facce sorridenti. Le formalità doganali richiedono molto tempo, nonostante la nostra assistenza locale. In aggiunta a questo, al primo distributore di carburante perdiamo anche tanto tempo a discutere con i gestori, convinti che ci stiano imbrogliando. La moneta dell'Azerbaijan, molto svalutata, è stata di recente convertita a valori più pesanti, e le banconote sono entrambe in circolazione. A differenza però di altri paesi (Es. Turchia, Romania ecc..) dove la conversione dal vecchio e nuovo corso è stata fatta togliendo 4 o 5 zeri dal valore precedente, qui hanno pensato bene di complicare la cosa rapportando a 5000 il vecchio valore. La conseguenza è che i prezzi alla pompa sono ancora espressi nel valore precedente, si paga con la moneta attuale che a noi ci hanno dato al cambio alla frontiera, ma il resto loro ce lo danno con banconote del vecchio corso. Impossibile capirci qualcosa: rassegnati al probabile piccolo furto sul resto dopo aver perso troppo tempo a discutere ripartiamo verso est.












Ma incontriamo ugualmente il buio che siamo ancora a 100 km dalla capitale, Baku. Su un altura, mentre procediamo ad andatura piuttosto sostenuta, veniamo fermati da un posto di blocco di polizia. Ci aspettiamo multe o peggio, la nostra assistenza locale con il furgone è rimasta molto indietro, dobbiamo sbrigarcela da soli. I poliziotti discutono tra loro animatamente su quel che sia giusto fare. Qui in Azerbaijan parlano una lingua molto simile al turco, e qualche parola di quella lingua c’è familiare. Di quel che dicono tra loro, ci sembra di capire che è vietato alle moto circolare con il buio…. Ci inseriamo nella conversazione facendogli osservare che noi dobbiamo in ogni caso arrivare all’hotel, già pagato. Sono molto sorpresi e contenti di vedere che riusciamo a comunicare con loro nella loro lingua, e decidono di farci proseguire, scortandoci con le auto fino alla capitale. Un auto in coda ed un auto di fronte, ripartiamo accoppiati due a due con l'ordine di restare uniti e percorriamo così nel buio gli ultimi 100 km, osservando comunque nella semioscurità che il paesaggio è ormai completamente cambiato. Non più le foreste ed i campi verdi della Georgia, ma una arida distesa collinare molto simile ad un deserto. Alla periferia della capitale, la nostra scorta militare ci lascia: siamo preparati ad una richiesta in denaro, per il servizio ed il “favore” di lasciarci proseguire, ma questa non arriva. Ci offriamo quindi noi di omaggiarli di qualcosa, ma loro rifiutano cortesemente: quello che hanno fatto è stato solo per amicizia.

Baku e dintorni è uno dei posti più inquietanti del pianeta. Da circa un centinaio di anni estraggono petrolio dalle spiagge e dai terreni circostanti la città. Qui l’Unione Sovietica aveva tutti gli impianti chimici che servivano alla nazione. Pompe petrolifere ormai più che obsolete continuano ad estrarre l'oro nero, che in parte fuoriesce dalle conduttore fatiscenti, mescolandosi con l’acqua e disperdendosi sul terreno ed in mare. Non bastasse, grovigli di tubi arrugginiti perdono gas colorati e puzzolenti dalle poche fabbriche chimiche ancora funzionanti nella città chimica di Sunmqait 40 km a nord, mentre quelle già chiuse ben rappresentano lo sfacelo di un certo modello di sviluppo. Diverse decine di Km quadrati di metallo arrugginito: attraversarlo è vivere una esperienza da “the day after”. Qui in quest’area c’è una altissima incidenza di malformazioni neonatali e c’è perfino un cimitero dei deformi, che è diventata una “attrattiva turistica”, che noi però evitiamo. Preferiamo recarci in visita al tempio degli adoratori del fuoco nella penisola di Absheron. La presenza di gas naturale in questa terra era nota fin dall’antichità, e qui si erano insediati nuclei di adoratori del culto di Zoroastro. Qui avevano costruito i loro templi, dove vivevano di elemosina, mortificandosi nel corpo con punizioni corporali e digiuni. Le fiammelle del tempio ormai sono alimentate da conduttore artificiali, visto che il gas sotterraneo in quel punto è esaurito. Il fuoco viene acceso solo quando arrivano i turisti, con alte pertiche con uno straccio legato sulla sommità che viene incendiato prima di alzarle fino a raggiungere i camini. A sud di Baku visitiamo nel pomeriggio un importante sito con incisioni rupestri preistoriche e resti di insediamenti che dimostrano che all’epoca il Mar Caspio era molto più esteso rispetto ai giorni nostri, e copriva gran parte delle pianure che lo circondano. Attualmente il Caspio, che più propriamente è un lago e non un mare, e’ circa 20 metri sotto al livello degli altri mari, e tutta la sua area è una grande depressione sulla crosta terrestre. Vicino alle incisioni preistoriche, anche una pietra miliare con l'iscrizione di un centurione romano: il reperto dimostra che i romani arrivarono fino a qui, e questo e' il punto più distante raggiunto dall'impero. Il centro di Baku la sera è piacevole. Il lungomare è costellato di ristoranti dove si mangia e si può assistere a spettacoli di mangiatori di coltelli e ballerine del ventre.





Il nostro viaggio verso est prevede che noi si arrivi in Turkmenistan attraversando questo grande lago. Esiste una flotta di vecchi traghetti , riadattati per trasportare vagoni ferroviari, che un tempo erano in servizio in Adriatico nell’ ex-Iugoslavia, portati qui dal Mediterraneo attraverso il mar Nero ed il canale Volga-Don. Trasportano petrolio in una direzione e cereali in quell’altra, facendo spola tra le due rive in circa 12 ore. Non hanno però orari ufficiali ed in teoria non potrebbero caricare passeggeri, se non in numero molto limitato (meno di una decina). Noi siamo partiti sapendo che comunque in qualche modo, grazie alla nostra organizzazione locale, saremmo riusciti a passare tutti. Al mattino presto la trattativa negli uffici del porto sembra essere andata a buon fine. Alle 11 e 30 già 16 delle 18 moto del gruppo sono nella pancia della nave a fianco dei vagoni, quando improvvisamente una figura nuova dell’equipaggio compare urlando nella stiva ed in malo modo ricaccia tutte le moto fuori. Scopriamo così di aver trattato al mattino con il vice-comandante, e non con il comandante, ad insaputa di quest’ultimo. Questo, forse solo per far capire al suo vice chi comanda veramente sopra alla nave, sembra non volerne saperne di noi, che pur abbiamo già pagato, ed anche caro, per il servizio che ora ci viene negato. Ricomincia allora una nuova trattativa con lui, nella quale interviene anche la polizia di frontiera che già aveva fatto tutte le formalità per la nostra partenza (e che aveva già da noi ricevuto il nostro scontato e lauto omaggio) fino a quando riusciamo finalmente a risalire, mentre la nave già ha mollato gli ormeggi e quasi si appresta a chiudere le paratie. La traversata dura di più delle 12 ore previste, e la sistemazione è quanto di più scomodo e sporco si possa immaginare. Ma al mattino all’alba, all’arrivo nel porto di Turkmenbashi, la banchina è impegnata da una altra nave: vengono così calate le ancore per ore, senza che si possa sbarcare, e la sofferenza continua fino a mezzogiorno.











L’arrivo in TURKMENISTAN avviene così per noi proprio nel momento più caldo della giornata. La colonnina del mercurio nel piazzale dove sono parcheggiate le moto arriva a 52°. All’interno della dogana, le lunghe formalità comprendono, tra le altre cose, per i turisti stranieri, il pagamento di una somma anticipata quale differenza tra il costo della benzina all’interno del paese ed il costo della benzina normalmente applicato nelle nazioni vicine. Per percorrere circa 1.200 km in questo paese paghiamo così in frontiera solo per questa tassa circa 80 dollari a testa. Poi nei giorni seguenti pagheremo in totale per il carburante non più di 4 dollari: con un dollaro si comprano infatti oltre 20 litri di benzina. Il costo così basso del carburante non è l’unica stranezza di questo paese. Ci racconta la guida che alcune cose, considerate popolari, costano così poco che non esiste il modo di pagarle: ad esempio un biglietto per una corsa in bus nella capitale Asghabat costa una somma che non esiste una moneta altrettanto bassa con cui pagarla. Se in Azerbaijan il culto della personalità dei capi di stato della “repubblica” ci era sembrato eccessivo, qui in Turkmenistan sfiora il ridicolo. Oltre alle gigantografie del viso del presidente (un ingegnere funzionario di partito nominato da Gorbaciov poco prima del disfacimento dell’Unione Sovietica) che sono onnipresenti sulla strada e in tutti i luoghi più o meno pubblici, (hotel compresi) esistono anche statue d’oro con la sua immagine a figura intera. Nella capitale, una ditta francese da anni sta procedendo alla demolizione di interi quartieri e alla costruzione di edifici giganteschi in marmo bianco. Con uno sfarzo che un poco disturba gli animi, in questo paese dove ai lati strada trovi tanta povera gente ad aspettare un cliente un giorno intero sotto al sole per vendere pochi pomodori o un cocomero. Tra questi edifici sfarzosi, una nuova moschea che è ora la più grande di tutta l’Asia centrale, costruita nel luogo natale della madre del Presidente, in memoria della quale è stato ribattezzato anche il mese di aprile, chiamato ora con il suo nome. Sulla strada tra Turkmenbashi sul mar Caspio e la capitale, pochissimi centri abitati ma innumerevoli posti di blocco: li superiamo agevolmente solo grazie alla nostra guida locale che ha già, pronte da lasciargli, decine di fotocopie di elenchi con tutti i nostri dati, oltre (immaginiamo) il solito lauto omaggio. I tratti somatici degli abitanti sono già cambiati ed ora si vede molto bene, soprattutto negli occhi, che siamo inequivocabilmente in Asia. Compaiono a lato strada anche i primi dromedari (quelli con una gobba sola!!) talvolta in gruppi numerosi. Un centinaio di km prima di Asghabat, azzardiamo una deviazione dalla strada principale. Vogliamo recarci in una località poco distante dove, a circa un centinaio di metri di profondità, in una grotta, esiste un lago di acqua calda dove si può fare un bagno, raggiungibile da una apertura in superficie. Abbiamo percorso solo poche centinaia di metri in quella direzione quando un’auto che ci seguiva senza troppo clamore ci supera e ci ferma. E’ la polizia, che ci tiene sotto controllo dal giorno prima. Ci dicono che dobbiamo tornare indietro: in frontiera, al nostro ingresso in Turkmenistan, quella strada non l’abbiamo dichiarata tra quelle del nostro percorso. Riusciamo a convincerli a tenerci sotto controllo in modo diverso dal solito venendo anche loro a fare il bagno sotterraneo con noi.

















All’arrivo ad Asghabat, la capitale, veniamo tutti fermati all’ennesimo posto di blocco. Poi cinque auto a sirene spiegate ci scortano nel parcheggio del lussuoso hotel, dal quale però ci dicono non possiamo allontanarci, né in moto né a piedi, fino al giorno dopo, quando loro torneranno e ci accompagneranno verso il mercato di Kulcuka ed il deserto del Karakum. Ci sentiamo un po’ prigionieri, ma facciamo buon viso a cattiva sorte. I pochi che provano prima di cena a spingersi a piedi nei viali della città dove ci sono i palazzi più nuovi e belli, per fotografare qualcosa di questa città, vengono immediatamente rimproverati dalle guardie (presenti sulla strada a distanza tra loro di non più di 50 metri) e sono di fatto costretti ritornare all’hotel.
Il mattino dopo, per noi una delle visite più belle di tutto il viaggio: il bazar del giovedì di Tolkuchka. Una esplosione di colori, odori, suoni, movimenti che e’ molto difficile descrivere a parole. Una di quelle situazioni che vanno vissute per essere capite. Una moltitudine di persone in abiti tradizionali che si scambiano ed acquistano merci tipiche necessarie per la loro vita quotidiana. Non il mercato ormai solo per turisti come può essere citato ad esempio il Gran Bazar di Istanbul.
E’ quasi mezzogiorno quando iniziamo la traversata del deserto del Karakum, e ci sono sempre i 50 gradi che c’erano anche il giorno prima. Il blu intenso del cielo, come non abbiamo mai visto prima, ci tranquillizza che però e’ un caldo assolutamente secco, ben sopportabile in moto, a condizione di stare molto coperti e viaggiare con il casco chiuso. E’ indispensabile bere continuamente tanta acqua: alcuni di noi hanno una bottiglia nella borsa da serbatoio, che prendono ed usano mentre sono in marcia, altri più preparati hanno vere e proprie sacche di acque a zainetto dalle quali bevono con un tubo ed un beccuccio. Il villaggio di Erbent è l’ultimo centro abitato prima dei 300 km di nulla che finiranno vicino al lago di Aral, ai confini dell’Uzbekistan. Non c’è acqua potabile nelle case, se non quella trasportata continuamente da cisterne. La sera solo alcuni generatori diesel forniscono quel poco di energia elettrica per far funzionare, ad esempio, i frigoriferi per congelare bottiglie di acqua e bibite che durante il giorno successivo saranno vendute, ancora fresche nonostante il caldo infernale, ai pochi turisti o viaggiatori che transitano da li, ad esempio noi. La strada asfaltata, fino alla località ormai scomparsa di Darvaza, è stata appena rifatta e l’andatura è molto sostenuta. Ci fermiamo solo per una sosta presso un cratere formatosi decine di anni fa a seguito di una esplosione di gas, dove adesso c’è acqua fredda ribollente del gas che continua a fuoriuscire, ed arriviamo nel tardo pomeriggio all’accampamento, mentre si alza un fastidioso vento che solleva la sabbia. La polizia ci saluta e torna alla capitale, noi invece, dopo un pasto frugale che con il senno di poi (visti i successivi problemi intestinali a tutti) era meglio saltare, nella notte a turni di 5 alla volta con il fuoristrada della nostra guida ci rechiamo in visita al cratere di fuoco. Questo singolare luogo turistico fu provocato come gli altri crateri della zona da una esplosione di gas, che continua ad uscire ed a bruciare, creando una situazione la notte che merita assolutamente di essere vista.
















Al mattino all’alba la partenza dall’accampamento di Darvaza è rallentata da un incidente tecnico accaduto nella notte precedente: nei serbatoi di alcune moto, durante il rifornimento con le taniche trasportate dal furgone di appoggio, è stata messa acqua invece che benzina. Impieghiamo ore per rimediare all’accaduto e siamo così costretti a percorrere in fretta i 200 km di strada che ci separano dal confine Uzbeko, con l’ansia di arrivare tardi alla frontiera che chiude alle 18. E' una strada che a differenza dei 300 km del giorno prima è però ancora da rifare e versa in condizioni disastrose, con buche profonde anche mezzo metro. Un calvario che vede alla fine diverse moto uscirne con i supporti valigie o delle carenature troncati, gli ammortizzatori estremamente provati ed in un caso addirittura un telaio spezzato nella zona di attacco del baule posteriore. Un motociclista del gruppo inoltre sta molto male: non ha bevuto a sufficienza nei due giorni passati, ed ha anche (come quasi tutti) un po’ di problemi intestinali. Rischia il collasso mentre facciamo le operazioni doganali.





Superato il breve spazio di terra di nessuno interposta tra le due nazioni, appena arrivati alla frontiera di entrata in UZBEKISTAN chiamiamo una ambulanza e con alcune fleboclisi reidratanti in poche ore di ricovero lo salviamo da quella brutta situazione. La sua moto viene presa da un altro motociclista del gruppo che prima di arrivare ad Asghabat, era rimasto appiedato per un guasto al cuscinetto del cardano della sua BMW gs 1150 Adventure, e che ci seguiva tristemente con la moto caricata sul nostro furgone di appoggio.
Nukus è la nostra meta dopo il deserto. Un tempo era una città fiorente che godeva della sua posizione: non troppo lontana dal mare di Aral, molto pescoso, e circondata dalle coltivazioni intensive di cotone. Ora è in disastrosa decadenza e con gravissimi problemi ambientali. I pesticidi usati in decenni di coltivazione intensiva e finiti con le acque nel lago che si sta prosciugando stanno tornando nell’aria grazie ai venti impetuosi che sollevano la polvere creatasi con la desertificazione dell’area. I veleni sono anche presenti nelle falde acquifere sotterranee collegate al lago, che rappresentano la risorsa potabile per gli abitanti. In conseguenza di questo disastro ecologico, l’aspettativa di vita degli abitanti è molto più bassa che nelle altre zone del paese. L’hotel dove possiamo alloggiare risente di questa situazione ed è praticamente invivibile. E’ il secondo imprevisto del nostro viaggio: decidiamo di restare in quel luogo solo una notte ed annulliamo la programmata escursione fino a Moniaq, un tempo porto sul lago di Aral ed ora spettrale cimitero di navi in secca, e ci dirigiamo a sud.
Nel XIX secolo il nome di Khiva incuteva paura, evocava carovane di schiavi, terribili viaggi attraverso deserti e steppe infestate da tribù selvagge, crudeltà barbariche. Era governata dai Khan, che mantenevano il loro potere attraverso la tortura ed esecuzioni sommarie. In un reportage del 1863 un giornalista ungherese raccontò di aver visto 8 anziani a terra ai quali venivano strappati gli occhi. Il carnefice man mano procedeva nel suo lavoro puliva il suo coltello nella loro barba. L'impalatura era uno dei sistemi più utilizzati per la messa a morte dei condannati: questi impiegavano anche due giorni per morire. A chi invece veniva sorpreso a compiere reati minori, es. a fumare o bere alcolici, veniva praticato un taglio della bocca da orecchio ad orecchio che gli deturpava il viso in un sorriso beffardo. I Khan si opposero a qualsiasi forma di modernizzazione e furono tolti di mezzo solo nel 1924 quando l'area fu annessa alla neonata Repubblica Socialista dell'Uzbekistan. I Russi, nei loro tentativi di conquista effettuati a partire dal 1874, si resero comunque artefici di atrocità collettive sulla popolazione altrettanto indegne di quelle dei Khan. La città era ricca di madrasse e minareti, decorati con ceramiche azzurre, e moschee, la più famosa delle quali ha 215 colonne di legno che sostengono il tetto. Il tutto racchiuso tra imponenti mura di fango, che sono ai giorni nostri ricostruite come il resto della città museo.
Questo gioiello, sicuramente il più prezioso di tutto l'Uzbekistan, è un po' lontano dalle altre località che i turisti, scesi all'aeroporto internazionale di Tashkent, di solito raggiungono in autobus. Per questo motivo e' più tranquillo e godibile, soprattutto al tramonto e alla notte. Per noi a Khiva nessun problema, ma solo un piacevole incontro da raccontare. La mia moto parcheggiata dentro al cortile dell'hotel su un asfalto appena rifatto crolla di lato: si rompe lo specchio laterale. Giorni prima, centrando una buca nella strada nel deserto del Karakum, si era anche spezzato il supporto delle valigie. Approfittando dei tre giorni di sosta, decido di provare a riparare il possibile. In mio aiuto, mandato dalla reception dell’hotel, arriva un ragazzo locale, che mi accompagna in auto da un saldatore per alluminio e mi ripara pure lo specchio, saldando in qualche modo a lui conosciuto la plastica e sostituendo la parte riflettente con una presa da uno specchio normale. Il ragazzo è fuori di se per il nostro incontro e vuole a tutti i costi farmi conoscere la sua famiglia. Mi porta così nella sua casa dove, tutto orgoglioso, oltre al minareto privato vecchio di 500 anni mi mostra anche una piccola moto russa parzialmente smontata e con il serbatoio stranamente tagliato. Appeso alla parete del garage un poster di una moto giapponese: lui mi spiega che sta modificando l’estetica della sua moto per farla diventare il più simile possibile a quella del poster, vuole fare un modello “kaklamac”, che è il suo nome di battesimo. Non posso non sorridere a questa iniziativa, anche perchè mi accorgo che Kaklamac è molto simile in viso al protagonista indiano di una famosa pubblicità televisiva di una utilitaria francese, che con l’aiuto di un elefante e di piccoli urti contro un muro cerca di trasformare la sua vecchia auto indiana nell’auto dei suoi sogni, con un risultato però molto approssimato e ridicolo. Auguro al ragazzo di riuscire nella sua opera e mi congedo, non prima di avergli promesso l’invio di un casco moderno al mio ritorno in Italia.






















Tra Khiva e Buchara ci sono 500 km di strada con un buon asfalto che attraversa in gran parte il deserto rosso. E’ però praticamente impossibile trovare benzina ai pochi distributori di carburante che esistono: tutti i locali vanno a prenderla di contrabbando dal vicino Turkmenistan, dove come abbiamo detto non costa nulla. La nostra guida con il furgone inizia così un pellegrinaggio da famiglia a famiglia per riuscire a riempire i fusti che poi serviranno a colmare i serbatoi delle moto, per consentirci di arrivare a destinazione.






Ho detto prima delle atrocità dei Khan di Khiva. Gli emiri di Buchara non erano da meno. Fece scalpore nell'Inghilterra vittoriana del 1842 la messa a morte dei due ambasciatori brittannici Stoddart e Connoly, decapitati al suono di tamburi e zampogne di fronte alla folla dopo essere stati costretti a scavarsi la propria fossa. Il primo era reo di essere arrivato a Buchara per rassicurare l'Emiro sulle intenzioni inglesi circa l'Afghanistan recando una lettera del governatore dell'India e non della Regina Vittoria (che lui considerava al suo pari sovrana), senza doni e violando pure il protocollo, arrivando al palazzo dell'Emiro a cavallo invece che a piedi. Il secondo fu inviato per ottenere il rilascio del primo ma per sospetto su un complotto con i Khan di Khiva fu imprigionato anche questo. Dopo la loro morte, l'opinione pubblica inglese chiese la guerra ma il governo decise di lasciar perdere la faccenda. Parenti ed amici infuriati raccolsero fondi privati per mandare un emissario a verificare la questione. Reclutarono un religioso stravagante che si salvò dalla morte solo perche' l'Emiro lo trovò ridicolo nei suoi abiti cerimoniali. A confronto delle ceramiche azzurre di Khiva, il rosso mattone dei palazzi monumentali di Buchara è un po' una doccia fredda ma questa città conserva il maggior numero di edifici protetti di tutto l'Uzbekistan. Il minareto Kalon e' una opera d'arte originale del 1127, salvatosi anche dalla furia di Gengis Khan che lo trovò troppo bello per raderlo al suolo come usualmente faceva sul suo cammino con tutto il resto che incontrava. In 880 anni non ha mai avuto bisogno di restauri. Le decorazioni di mattoni sono divise in 14 fasce l'una diversa dall'altra. L'ARK, una città regale nella città, è la costruzione più antica di Buchara, abitata dal V secolo fino al 1920, anno in cui fu bombardata dall'Armata Rossa.



Timur-i lang ossia Timur "lo zoppo", occidentalizzato in TAMERLANO (1336 - 1405) fu il fondatore della dinastia timuride, attiva in Asia Centrale e nella Persia orientale. Arrivò a governare un immenso impero che in termini di nazioni moderne copriva Turchia sudorientale, Siria, Iraq, Kuwait, Iran e buona parte dell’Asia Centrale fino a una zona del Pakistan, avvicinandosi addirittura a Kashgar nell’attuale Xinjiang (Cina). Di origine mongola, nacque a Kesh, attuale SHAkSRIBAZ, e presto divenne capo del suo clan. Nel 1370 iniziò le sue scorribande con la conquista dell'Iran e del caucaso meridionale. Segui una campagna in India con il saccheggio di Delhi e poi la conquista della Siria. Morì durante la spedizione in Cina che iniziò allo scopo di ricostituire nella sua completezza l'impero mongolo che era stato scacciato dai primi imperatori Ming. Le sue gesta vittoriose furono narrate dai cronisti orientali dell'epoca, a lui favorevoli, e da un cronista arabo che invece descrisse le nefandezze delle sue incursioni, raccapriccianti. Anche se la presa di Isfahan in Iran nel 1387 non vide la resistenza degli abitanti della città, il massacro che seguì fu determinato dal rifiuto della popolazione locale di pagare tributo, o forse anche dall'uccisione di alcuni soldati della guardia. Alcune fonti ricordano le orribili torri di teste ammassate nella città a seguito dell'immane strage della popolazione (circa 100.000 morti). Ricordato nella cronaca anche il massacro di tutti gli abitanti di Delhi in India (i sopravissuti furono ridotti in schiavitù e deportati a Samarcanda) e quello di Aleppo, in Siria, dove solo gli artigiani furono risparmiati, allo scopo anche questi di portarli alla capitale per la costruzione dei palazzi.
A Shaksribaz un imponente monumento a figura intera di Tamerlano si erge di fronte alle rovine del suo palazzo che superava per magnificenza qualsiasi altra costruzione di Samarcanda. Questo palazzo fu distrutto nel XVI secolo dall'emiro di Buchara e ora resta solo il gigantesco ingresso alto 40 m ricoperto di splendidi mosaici bianchi, blu ed oro.


Tamerlano è sepolto nel Mausoleo Gur-e Amir a Samarcanda. Il corpo di Tamerlano fu esumato dalla sua tomba nel 1941 dall'antropologo russo Mikhail M. Gerasimov, il quale scoprì che le caratteristiche facciali si conformavano a fattezze mongoloidi, il che avrebbe confermato la pretesa dello stesso Tamerlano di discendere da Genghis Khan. L'esumazione confermò inoltre che il morto era zoppo e dal teschio, Gerasimov riuscì anche a ricostruire l'aspetto di Tamerlano. Una tradizione vuole che sia stata scagliata una maledizione contro chi avrebbe violato la tomba. La maledizione si sarebbe gia' manifestata due volte. La prima sul persiano Nadir Shah (1736-1747), che di ritorno dall'India avrebbe asportato la tomba (un unico blocco di giada verde), dopo che i tentativi di aprirla vi avrebbero provocato una crepa. I guai che ne conseguirono furono tali da convincerlo a far riportare la tomba a Samarcanda ma il persiano finì ugualmente assassinato. La seconda fu appunto l'esumazione dello studioso: l'apertura avvenne il 19 giugno 1941, e tre giorni più tardi, il 22 giugno, i nazisti scatenarono l'Operazione Barbarossa, ovvero l'invasione dell'Unione Sovietica. La sorte volle tuttavia che nel 1942, poco dopo che lo scheletro di Tamerlano (con quello del nipote Ulu Beg) fu sepolto di nuovo secondo il rito musulmano, avvenisse la resa dei nazisti a Stalingrado.












"We travel not far trafficking alone. By hotter winds our fiery hearts are fanned. For lust of knowing what should not be known. We take the Golden Road to Samarkand." (James Elroy Fecker, The Golden Journey to Samarkand, 1913). Non viaggiamo solo per il commercio. Da venti più caldi sono infiammati i nostri cuori ardenti. Per la bramosia di conoscere quel che non dovrebbe essere conosciuto. Percorriamo la strada dorata di Samarcanda.

Nessun nome richiama alla mente la Via della Seta come quello di Samarcanda. Resa immortale nell'immaginario popolare dell'occidente da poeti e scrittori di epoche passate (e cantanti italiani ancora in voga) per molte persone ha la stessa risonanza di città mitologica di Atlantide. In realtà dopo aver visto Khiva, Buchara e Shaksribaz, la città attuale un po' delude. I monumenti incredibili fatti erigere da Tamerlano e suoi discendenti nel XIV e XV secolo quando Samarcanda era l'epicentro economico e culturale dell'Asia Centrale, sono ormai delle isole all'interno di un agglomerato urbano stile sovietico che non ha niente di interessante. All'interno di quelle isole pero' si respira comunque un'atmosfera magica che da sola vale il viaggio. Il Registan è un complesso straordinario di madrase (scuole coraniche), una profusione quasi esagerata di maioliche e mosaici azzurri ed ampi spazi proporzionati. La moschea di Bibi-Khanym annessa al Registan secondo la leggenda fu fatta costruire dalla adorata moglie di Tamerlano mentre lui era assente. L'architetto si innamorò di lei e si rifiutò di terminarla, a meno che lei non gli avesse dato un bacio. Tale gesto lasciò un segno e Tamerlano quando lo vide fece giustiziare l'architetto e ordinò che le donne per il futuro indossassero il velo per non rappresentare una tentazione per gli altri uomini. Era la piu' grande moschea e per costruirla furono utilizzate le tecniche più moderne dell'epoca. Nonostante questo, le sue dimensioni crearono sempre problemi strutturali e la volta crollò definitivamente alla fine del diciannovesimo secolo durante un terremoto. Il mausoleo di Guri Amir, altra isola nella città, racchiude le spoglie del condottiero, ed è molto particolare nella sua illuminazione notturna. Come in altri mausolei mussulmani, le lapidi hanno solo una funzione indicativa e le cripte vere e proprie si trovano in una camera sottostante. Il custode si offre di farcele visitare, ovviamente dietro lauta mancia. Samarcanda ci assorbe due giorni interi. Nella visita, siamo accompagnati da Nasiba, una giovane ragazza insegnante di Italiano nella locale università, che insieme ad Amber, il nostro accompagnatore in tutta la nostra permanenza in Uzbekistan, rimangono uno dei ricordi più belli del nostro viaggio.







Ripartiamo. Per il gruppo il viaggio si avvia ormai al termine. All’arrivo a Tashkent, la capitale, abbiamo una sorpresa: per motivi di sicurezza del Presidente, il transito in città è vietato alle moto. Ci tocca quindi un’altra lunga attesa al posto di blocco per aspettare l'arrivo dell’auto scorta della Polizia che ci può accompagnare fino all’hotel. Dopo tutte le meraviglie incontrate, la capitale non offre niente di particolarmente interessante. Unica curiosità, un po' angosciante, lo "spettacolo" del passaggio del Presidente e della sua scorta armata (blindati fuoristrada, neri, con diversi uomini incappucciati di nero fuori dai finestrini, a mitra spianato puntato verso i marciapedi) due volte al giorno sulla strada che dal palazzo del Governo porta alla sua residenza.

IL RITORNO DA TASHKENT (23 AGOSTO - 10 SETTEMBRE 2006)





Dopo due giorni in città per organizzare la spedizione aerea in Italia delle 13 moto dei componenti il gruppo che terminano qui il loro viaggio, in 5 ripartiamo per il nostro viaggio di ritorno in Europa, via terra attraverso il KAZAKISTAN. Per arrivare nella Russia Europea, ci aspettano quasi 2.000 km di strade, alcune di queste in condizioni impossibili, come abbiamo saputo dai pochi turisti incontrati finora che le hanno appena percorse con camper. La frontiera sembra un grande mercato, le formalità sono abbastanza veloci ma l’assenza di qualsiasi rispetto delle più ovvie regole della circolazione stradale ha creato una situazione nei dintorni che facciamo fatica ad attraversare anche in moto: decine e decine di auto incastrate tra loro non riescono più ad andare ne’ avanti ne’ indietro ed occupano tutta la carreggiata. Gli autisti sembrano tutti impazziti, nessuno vuole retrocedere dalla posizione che ha “conquistato” anche se non va’ più avanti da li ed impedisce anche agli altri di fare altrettanto. Usciti da quel blocco assurdo, il trasferimento di quasi 500 km fino all’unica città importante della zona dove possiamo trovare da dormire, Kizylorda, è comunque molto veloce, grazie ad un asfalto quasi perfetto ed al traffico inesistente. Sulla strada solo una sosta a Turkestan dove c’è una scuola coranica (Madrassa) tra le meglio conservate di tutta l’Asia centrale.
L’incidente occorso a Donatello il giorno dopo crea una situazione per noi molto difficile. In pieno deserto, in una semicurva, un auto di kazaki prepotenti tampona violentemente il Transalp che procedeva più lentamente al mio fianco, facendolo cadere e spingendolo avanti per una decina di metri. La moto ha lievi danni che poi ripareremo da un saldatore locale, ma Donatello si rialza con un dolore al polso che non gli consente di guidare. Con enormi difficoltà riusciamo a raggiungere un ospedale e grazie ad innumerevoli telefonate a Nasiba, la nostra guida che avevamo a Samarcanda e che in quel modo ci fa da interprete con i medici del posto, riusciamo a controllare cosa è successo. Il referto del radiologo parla di una lieve frattura dell’osso dell’avambraccio, a livello del polso: è necessario fare un gesso. La situazione è disperata, la città più vicina dove in qualche modo noi si possa organizzare un rimpatrio della moto e del pilota è a 800 km di distanza. Riusciamo a ripartire in fretta da Kizylorda senza abbandonare Donatello grazie all’iniziativa che prendiamo il giorno dopo. Al mattino presto abbordiamo davanti all’hotel un camioncino che si appena fermato per una sua commissione. Con la cartina in mano e disegnando su un foglio di carta la moto caricata sul cassone del camion, riusciamo a spiegare all’autista che a noi ci serve immediatamente un passaggio per fare 1800 km fino al confine con la Russia. Inizialmente ci scambia per pazzi, poi quando capisce che ci sono per lui molti dollari da guadagnare l’accordo con noi è presto raggiunto. Dopo poche ore si parte per un viaggio che per lui, dovendo poi ritornare indietro, sarà di oltre 3000 km.


















Aralsk è la nostra tappa della sera. Come Monyaq in Uzbekistan, anche questa fino ad un decennio fa era una cittadina marittima sul lago di Aral. Ora le acque del lago per colpa delle politiche agricole sovietiche degli anni '60 e '70 si sono ritirate di 60 km. Le gru sul porto ormai secco, le navi arrugginite appoggiate su un fianco, la polvere e l’abbandono che regnano ovunque mettono una tristezza profonda. Sulla strada, prima di arrivare ad Aralsk, passiamo anche a fianco della base missilistica dalla quale sono partite e partono tutte le imprese spaziali dei russi.

L’indomani ci aspetta la tappa più dura di tutto il viaggio. 600 km verso nord sulla M42 per arrivare ad Aqtobe, la città Kazaka vicina al confine russo. Una tappa che durerà 15 ore. 300 km a metà giornata si rivelano quanto di peggio ci si possa immaginare da quella che in teoria sarebbe una strada asfaltata. Li percorro quasi tutti in prima e seconda marcia, e nonostante questa lenta andatura la moto ha ulteriori danni alle sospensioni. Ci sono dei tratti nei quali entrare ed uscire continuamente dalle buche profonde presenti fa assomigliare la marcia ad una discesa in moto giù per una scalinata invece che ad un viaggio su una strada pianeggiante. Il paesaggio è monotono ma affascinante. Non esiste una minima altura: le aquile se ne stanno in osservazione ed in caccia appollaiate sui legni alti poco più di un metro che a lato strada indicano la progressiva in km. Lunghissimi treni trasportano centinaia di cisterne di petrolio. Ogni tanto, incontriamo piccoli cimiteri mussulmani con moschee e case in miniatura come tombe di famiglia che li fanno assomigliare a villaggi per gnomi. Qualche giovane pastore a dorso di asino che sorveglia mandrie miste di bovini e pecore. E anche cammelli (quelli a due gobbe) che non avevamo ancora visto prima.
Dopo il nostro sbarco in Turkmenistan, il cielo era diventato blu intenso e non era più cambiato. Ma superato quel tratto di deserto Kazako, ormai vicini alla Russia, ricompaiono le prime nuvole, bianche, più o meno grandi e separate l’una dall’altra, che fanno sembrare i grandi spazi del paesaggio che ci circonda ancora più vasti. E la sera incontriamo anche la prima pioggia da quando siamo partiti, dopo ormai 30 giorni.
Avevamo detto in Georgia della non affidabilità delle carte geografiche nell’indicare le strade principali e quelle secondarie: qui in Kazakistan la situazione è anche peggio. Le strade internazionali segnate come le migliori scopriamo che sono tra le più rovinate e praticamente intransitabili (un esempio la M42 appena superata, che però non ha alternative). Mentre invece piccole strade, a volte nemmeno riportate sulle mappe, hanno un asfalto perfetto e consentono buone andature.













Il nostro ingresso in RUSSIA avviene quindi facilmente solo grazie alle informazioni raccolte sul posto, puntando a nord su una strada per noi prima inesistente (non c’e’ sulle carte) invece che continuando verso Ovest sulla M42 direzione Uralsk. Dopo quattro giorni trascorsi con la moto sul camioncino, arrivati alla frontiera, Donatello con la forza della disperazione, pur con il braccio ingessato, riprende a guidare il Transalp. Dopo il controllo dei passaporti, ci chiudono inspiegabilmente in un capannone. Venti lunghi minuti di attesa senza capire cosa succede, poi arriva un doganiere con un cane antidroga che fiuta con attenzione noi e le nostre moto, e possiamo ripartire. I primi 100 km di Russia si presentano a noi con ampie strade che affrontano leggeri saliscendi, immerse in spaziosi paesaggi rurali di cereali e foraggi. Ma anche venditrici di cocomeri e meloni sulla strada con capelli biondi, occhi azzurri e fisici perfetti che potrebbero stare su copertine patinate di prestigiose riviste maschili. La mia moto è rimasta definitivamente senza olio degli ammortizzatori in Kazakistan, e salta ad ogni avvallamento come un canguro. Superato il fiume Ural presso la città di Orenburg, siamo di nuovo in Europa. Qui, per ovviare un poco al problema che quasi mi impedisce di viaggiare, taglio via con un seghetto il baule posteriore. Nella città, anche l'incontro con una simpatica coppia di motociclisti del luogo che ci accompagnano all'hotel.




Finalmente, 450 Km dopo, nella città di Samara sul fiume Volga (area metropolitana di quasi un milione di abitanti, se sommiamo anche la vicina Togliattigrad) riesco a trovare un negozio di articoli per moto, il più fornito della città. Qui però hanno in vendita solo uno dei due ammortizzatori posteriori che andrebbero montati su una moto indigena, le URAL. L’ammortizzatore, dal costo irrisorio di 25 euro, sembra essere fatto apposta per la mia vecchia BMW. Anche cambiandone solo uno, la ciclistica migliora abbastanza ed il mio viaggio può riprendere con più sicurezza. Alla sera, nei locali delle spiagge sul fiume, centinaia di splendide ragazze a ballare o attorno ai tavoli a gruppetti di due o tre, mentre bevono birra e sono intente a fumare in maniera poco moderata, solitamente senza ragazzi con loro. Non ne troviamo nessuna che parla una lingua diversa dal russo, ed il loro interesse per noi è anche al di sotto delle nostre aspettative, per cui il giorno dopo ripartiamo senza rimpianti.
Il nostro gruppo di 5 motociclisti si divide nei pressi di Saratov: in tre prendono una strada che li porterà poi più a sud, io e Donatello ci dirigiamo più rapidamente verso Ovest.

Ci separano dal mar Nero 1500 km di strade pressoché rettilinee e sempre nel mezzo di spazi grandiosi. Volgograd, ex Stalingrado, che pur meriterebbe una sosta per visitare almeno la collina ed il museo in memoria della battaglia della seconda guerra mondiale (in questa città morirono solo da parte russa circa 600.000 persone, altrettanti tra i tedeschi) la passiamo senza fermarci: la strada per il ritorno è ancora lunga. Stessa sorte l'avevamo riservata la sera prima a Saratov, città del primo cosmonauta della storia, Yuri Gagarin, nelle vicinanze della quale un monumento ricorda il punto dove questo rientrò sulla terra dopo il suo viaggio spaziale. Ci concediamo una serata a passeggio per Rostov sul Don, dove più o meno troviamo la scena di bellissime ragazze intente a chiaccherare, bere birra e fumare già vista a Samara. Questa volta non sul lungofiume ma in uno splendido parco alberato con piante centenarie che si snoda per una lunghezza di oltre 3 km esattamente nel centro della città, con una passeggiata pedonale centrale ai cui lati ci sono anche locali e pizzerie raggiungibili dalle automobili a passo d’uomo. Uno spazio a misura d’uomo ed un mix tra natura e città che non avevamo mai visto prima in nessuna altra metropoli europea. Nelle nostre città, anche in quelle “migliori”, siamo abituati a trovare i parchi alberati nettamente separati e distinti dalle strade pedonali dove ci sono invece negozi e locali, mai insieme e frequentabili ad ogni ora del giorno e della notte. Da Rostov sul Don ci dirigiamo verso la Crimea, passando prima da Anapa sul mar Nero, una cittadina balneare troppo piena di gente, come può essere la nostra Rimini o Riccione nello stesso periodo estivo.




















L’entrata in UCRAINA avviene grazie ad un piccolo traghetto che collega la località di Port Kavkaz in Russia e Port Krym in Ucraina. Il nostro sbarco avviene a sera avanzata. Nella prima città, dove arriviamo che è già buio, Kerch, viviamo una esperienza singolare. Dopo aver cercato a lungo un hotel, troviamo finalmente il principale della città che (come ci era già capitato di vedere in quasi tutte le città dell’ex Unione Sovietica) porta lo stesso nome. Alla reception ci sono due persone indaffarate al computer in qualcos’altro che si vede perfettamente non c’entra nulla con la loro presenza dietro al bancone. Sembrano sorprese di vederci e cercano di spiegarci che non possiamo dormire li, perchè non ci sono camere. L’hotel però è evidente che è vuoto e ha tutte le possibilità di ospitarci: noi insistiamo. Nella speranza che noi si rifiuti, ci dicono allora che la camera c’è, ma non c’è l’acqua calda. Dopo tanto cercare, noi non avevamo visto altri alloggi in città e replichiamo con loro sorpresa che a noi per quella sera la camera va bene anche così. Sono ormai veramente seccati del fatto che noi si voglia a tutti i costi fermarsi da loro e senza dare altre spiegazioni ci dicono che la camera non c’è la danno. Prima che noi si possa replicare altro ci anticipano che però possono mandarci da una famiglia che ha camere in affitto. Siamo nei guai e accettiamo l’offerta. Nel buio di una città con poco o niente di illuminazione pubblica il portiere ci precede con una bicicletta, senza fanali, e rischia più volte anche di essere investito. Finalmente arriviamo in un cortile tra fatiscenti condomini. Da uno di questi esce una laida signora di mezza età che ci dice di parcheggiare le moto e salire in casa sua. Io e Donatello ci guardiamo molto preoccupati. Lui rimane alle moto, che non ci azzardiamo assolutamente a lasciare incustodite in quel luogo con tutti i bagagli, ed io salgo con la nostra ospite i 5 piani di scale semidistrutte per vedere come è la situazione. In casa, stanno facendo sloggiare i figli da una camera e riordinando alla meglio quelli che dovrebbero essere i nostri letti per quella notte, ma la situazione generale dell’appartamento rende più che evidente che non è una casa predisposta ad ospitare persone esterne. Ci viene chiesto per dormire una cifra quasi più alta di quella che avevamo pagato in confortevoli hotel nei giorni precedenti, ed anche se in cuor nostro temiamo di non trovare altro dove fermarci, rifiutiamo e ce ne andiamo, accompagnati dagli insulti in russo della signora che evidentemente doveva avere un preciso accordo con la reception dell’hotel statale per accalappiare gli sprovveduti passanti con la scusa che quello è già pieno o senz’acqua. Tentiamo una nuova ricerca chiedendo ad gruppo di taxisti, i quali ci dicono tutti non sapere dove sia un hotel. Tranne uno di loro che, guardato stranito dagli stessi colleghi, ci dice di seguirlo con le moto che lui sa dove si trova. Ci porta con l’auto fuori città e poi si infila anche lui tra alti palazzi fino a quando ci indica una porta ed una finestra illuminata di quello che però è evidente è solo un condominio e non un hotel. Siamo veramente arrabbiati per queste messinscene e dopo avergli comunque dato qualche dollaro per la corsa onde evitarci ulteriori problemi torniamo in città su una strada diversa. Un colpo di fortuna, che ci porta a trovare un ristorante (con annessa una piccola discoteca all’aperto affollata di giovani) dove al piano di sopra ci sono camere molto carine. Nel frattempo che la discoteca finisce il suo programma, noi ceniamo. E' ormai notte inoltrata quando ci fanno mettere le moto al sicuro, all’interno del giardino.










La Crimea è una penisola montuosa sul Mar Nero con coste frastagliate e piccole spiagge incastonate tra le scogliere che ricorda molto alcuni tratti di mare della Sardegna o della costa meridionale della Turchia. La strada è stretta e tortuosa. Piove e la nostra marcia in moto verso ovest non è esaltante. Poco prima di arrivare a Sebastopoli, passiamo da Yalta, rimasta famosa nella storia per aver ospitato poco prima della fine della Seconda Guerra Mondiale quelli che ormai si sapeva sarebbero stati i vincitori (Roosevelt, Stalin, Churchill) in una conferenza dalla quale uscì l’assetto dell’Europa con le rispettive aree di controllo di USA e URSS che rimase in essere fino ai giorni nostri. A Sebastopoli, nella nostra ricerca dell’hotel, chiedendo ad un taxista viviamo una esperienza quasi simile a quella vissuta la sera prima a Kerch, poi troviamo da soli il centro e di conseguenza il grand hotel della città. Il porto è carino, ci sono mercatini ed anche un bel concerto di musica classica all’aperto, che però termina quando noi alle 21.30 arriviamo nella piazza, convinti che la serata sia appena iniziata. Alle 22 la città è già deserta. L’indomani mattina ripartiamo verso nord e sotto la pioggia battente attraversiamo l’istmo che collega la Crimea al resto dell’Ucraina. Il paesaggio è comunque molto particolare, il mare si mescola senza soluzione di continuità alla terraferma in un ambiente lagunare dove alti canneti e piccoli fiori rossi che tappezzano i prati nonostante la pioggia ci regalano dei colori indimenticabili.
Odessa è una grande città, con un centro storico ben conservato di epoca tarda ottocentesca, famosa soprattutto per la immensa scalinata che scende verso il porto, passata alla storia nel celebre film di S.Ejzenstein “la corazzata Potemkin” che racconta la rivolta popolare del 1905 appoggiata dall'equipaggio ammutinato della nave zarista. Famosa la scena della madre che scende con la carrozzina gli infiniti gradini. Restiamo un giorno intero nella città: il nostro visto per entrare in Moldavia fatto due mesi prima è valido solo a partire da due giorni dopo. Il rientro è andato più veloce del previsto, nonostante l’incidente di Donatello in Kazakistan. Dopo un pomeriggio passato a cercare con enormi difficoltà un internet point e a girovagare a piedi senza meta tra centri commerciali nuovissimi e palazzi d’epoca più o meno interessanti, ci godiamo così la serata conclusiva della festa annuale della città, con un grande concerto ai piedi della scalinata e lo spettacolo pirotecnico sul lungomare.
Tra l’Ucraina e la Moldavia, esiste un territorio autonomo non riconosciuto dalla comunità internazionale che da oltre 15 anni si definisce REPUBBLICA DI TRANSNISTRIA. Due sono le città importanti, Tiraspol e Tighina, il resto è una campagna coltivata semi deserta. La storia di questa fantomatica repubblica è singolare e trae le sue origini anche dalle politiche sovietiche staliniste che istituirono le repubbliche socialiste con l’intenzione di mantenere tensioni al loro interno, renderle assolutamente ingovernabili senza l’autorità centrale e tenerle economicamente dipendenti l’una dall’altra. Avevamo già avuto modo di osservare questa situazione nei paesi del Caucaso meridionale (Georgia, Armenia ed Azerbaijan, questi ultimi due addirittura ancora in conflitto armato tra loro) e nell’area dell’Asia centrale, dove le repubbliche che ora costituiscono Turkmenistan, Uzbekistan, Kirghizistan e Tagikistan furono create inserendo pezzi di territorio storicamente e culturalmente di pertinenza del paese vicino, ed estromettendo invece altre zone che ci sarebbero dovute rientrare. Ad esempio l’area del Karakalpakstan con la città di Konya Urgench che anche se uzbeka era stata messa (ed ora è rimasta) all’interno del Turkmenistan, mentre invece diventava Uzbekistan tutta l’area intorno a Samarcanda, la cui collocazione appropriata vista la sua storia, la lingua e la cultura dei suoi abitanti sarebbe stata il vicino Tagikistan. Dopo la seconda guerra mondiale in questa fetta di Europa successe la stessa cosa. Nel 1944 al momento di creare la Repubblica Socialista di Moldavia una piccola superficie popolata in maggioranza da abitanti con cultura russa ed alfabeto cirillico, posta ad est del fiume Nistru (da qui il nome Trans-nistria) fu annessa ai territori della Moldavia sottratti dall’URSS alla Romania, dove invece si parlava rumeno, una lingua latina, e c’erano tradizioni e costumi che non avevano nulla a che fare con il russo. Il 27 gennaio 1990 con un referendum questa piccola regione ad est del fiume fu la prima in assoluto tra tutte le regioni sovietiche a dichiararsi entità indipendente, ma non fu riconosciuta dal resto dei paesi del mondo. Nei mesi successivi, furono le Repubbliche Baltiche e le altre Repubbliche Socialiste dell’ormai ex-URSS a dichiararsi indipendenti. Tra le quali, quasi un anno e mezzo più tardi della Transnistria, il 24 agosto 1991, la Moldavia. Questa però, non accettando la situazione di autonomia creatasi a Tiraspol, definì i suoi confini internazionali comprendendo al suo interno anche quei territori, e cercò di riprenderne il controllo amministrativo. La Russia però aveva interesse a mantenere il controllo di questa regione, nella quale erano concentrate molte fabbriche di armi ed una armata, la 14°, molto numerosa e ben equipaggiatai. Grazie alla superiorità delle forze russe a Tiraspol su quelle Moldave, la Transnistria resistette senza problemi al conflitto armato con la Moldavia, ma seguirono negli anni successivi continue tensioni, alcune anche sanguinose. Le tensioni coinvolgono anche la vicina Ucraina da qualche anno filo-europea. In questa situazione di stallo e tensione internazionale l’economia di questo "paese" si è spostata dai normali commerci ai traffici più illegali, soprattutto di armi, e l’area è considerata a rischio per i turisti, in quanto non esistono tutele all’eventuale strapotere di militari ed autorità varie e si vocifera di mancanza di rispetto per elementari diritti civili.

La strada diretta che collega Odessa alla Romania passa però da questa regione indipendentista, e quindi non c’è modo di evitarla se non allungando di diverse centinaia di km ed almeno due giorni il percorso verso l'Europa. Forti di questa motivazione (o più probabilmente spinti da auto-lesionismo conseguente ad eccesso di spirito di avventura) il 4 settembre io e Donatello ci presentiamo alla frontiera tra UA e Transnistria chiedendo come se niente fosse di entrare, mostrando il nostro visto di transito valido per la Moldavia. I militari si oppongono, ma alla fine la nostra insistenza prevale ed accettano il nostro ingresso. Ma non sappiamo cosa ci aspetta : il doganiere, dopo che ha ritirato la nostra dichiarazione di possesso della valuta, ci accompagna in una piccola stanza e ci ordina di mettere sul tavolo tutti i soldi che abbiamo. La somma che portiamo ancora con noi è molto diversa da quel che abbiamo scritto su quel foglio a cui avevamo dato poco valore. La nostra dichiarazione doganale fatta in fretta senza pensare alle possibili conseguenze è quindi "molto imprecisa". Il doganiere con la divisa dell'armata russa (con tanto di falce e martello ancora sul berretto) vuole tenere per lui tutti i soldi che risultano in più rispetto al dichiarato. La somma che ci vuole "sequestrare" è veramente elevata, e noi non ci stiamo. Trascorrono minuti di fortissima tensione: il doganiere chiama in aiuto un collega, la nostra resistenza fisica allo "scippo" quasi diviene per loro un motivo per procedere ad un nostro arresto. Ma poi riusciamo ad uscirne indenni, lasciando però sul tavolo 200 euro a testa per i funzionari. Un buon risultato, rispetto al sequestro di tutta la somma rischiato. Risolta quella situazione, appena ci lasciano uscire fuggiamo letteralmente dalla dogana, ma solo per entrare dentro alla tana del lupo. Siamo veramente spaventati: due km dopo la frontiera, imboscati dietro ad una siepe, nascondiamo tutti i soldi che abbiamo in luoghi impensabili dentro allla moto. Poi aggiriamo Tiraspol senza entrare in città, per evitare di incontrare altri militari o poliziotti. Ma ad un certo punto la nostra strada verso Chisinau, che ormai anche il navigatore ci dice che e' poco distante, e' interrotta da una sbarra. Al di la' di questa, sulla destra, un vagone ferroviario appoggiato per terra. Un centinaio di metri piu' avanti, oltre il vagone, un'altra sbarra ed un carro armato di traverso nel mezzo della strada. Dal vagone ferroviario spuntano stupiti due giovani militari, i quali dopo averci dato le istruzioni per trovare la strada per arrivare in Moldavia, ci sottopongono a perquisizione dei bagagli e ci chiedono per collezione (ahahahah) altri euro. Qui per fortuna ce la caviamo con poche monetine. Seguendo le loro indicazioni, superiamo con gioia il fiume Nistru, che crediamo il confine con la Moldavia, ma poi scopriamo invece che anche la citta' di Tighina e' sotto il controllo degli indipendentisti e ci torna l'ansia. Al posto di blocco in uscita dalla Transnistria, il militare al comando sembra allibito e ci dice che la nostra presenza in quel posto non è una cosa possibile: e' vietato agli stranieri attraversare il territorio della Transnistria entrando dalla Ucraina. Ci ordina di tornare indietro fino ad Odessa, sulla strada da noi percorsa finora. Ma noi siamo assolutamente decisi a lasciare quel paese in quel posto, e a non ripassare laddove ci avevano "rapinato". Iniziamo una nuova trattativa, agevolata dalla migliore conoscenza dell'inglese del funzionario rispetto ai suoi colleghi, nella quale ci inventiamo una nostra solidarietà per il loro stato di regione non riconosciuta dal resto del mondo. E cosi', dopo un po' di tempo e dopo una ennesima perquisizione (al solito, scrupolosissima) dei nostri bagagli ) riusciamo finalmente ad uscire dalla Transnistria.
Ovviamente con il pagamento ai funzionari di una somma in dollari che però in quel momento ci appare anche più piccola del reale, preparati come eravamo ad un altro salasso.

Dopo le peripezie vissute quel giorno in Transnistria, il ritorno verso casa ci pare ormai cosa fatta. Superata la triste Chisinau, capitale della MOLDAVIA, e i pittoreschi paesi della campagna circostante, raggiungiamo il confine con la Romania, dove entriamo senza alcun problema.







Alla frontiera la mia strada si divide da quella di Donatello, che prima di salutarmi per dirigersi verso Iasi salva nel suo PC portatile i dati delle mie tracce del navigatore GPS, che ci serviranno poi in seguito per analizzare attimo per attimo tutto il nostro percorso.

In ROMANIA, quattro giorni saranno per me sufficienti per un giro di ricognizione su luoghi molto ben conosciuti, dal Delta del Danubio a Brasov, da Cluj Napoca al Maramures. Con anche l'imprevisto per me, ormai in viaggio da solo, di restare senza benzina nella moto sulla strada tra Cluj e Zalau. Fortunatamente a soli 2 km da un distributore e vicino ad un negozietto di alimentari, dove posso acquistare una bottiglia per trasportare a piedi quel poco di benzina necessaria a raggiungere poi la pompa.

Dal Maramures entro in UNGHERIA: un pernottamento a Debrecen ed un pomeriggio a Budapest a trovare una amica sono più che sufficienti.

Dopo la veloce traversata ungherese, in SLOVENIA trascorro una serata a Liublijana con amici motociclisti italiani, in visita sul posto per il weekend.

Gli ultimi due giorni di viaggio li trascorro prima a Udine ospite di amici, poi e sulle montagne a nord di Verona, partecipando con loro ed altri motociclisti ad un incontro domenicale.

Il giorno dopo sono già al lavoro. La mia moto rimane in garage nelle condizioni nelle quali sono arrivato per diversi giorni, quasi che dovesse essere sempre pronta a ripartire e la mia sosta a casa fosse solo un momento nel viaggio, come lo erano state le soste nelle città uzbeke, del Kazakistan o della Russia. Agli amici che sembrano meravigliati per quella che ai loro occhi sembra una impresa impossibile mi trovo nei mesi seguenti a dare la seguente risposta: fare raid e viaggi così lunghi in moto, anche in posti così lontani, non è questione riservata a persone speciali. E' una cosa possibile assolutamente per tutti, ed è legata soprattutto alle priorità che noi ci siamo dati nella nostra vita. Salvo casi particolari, sono quasi sempre nostre scelte quelle che limitano il tempo che ci rimane a disposizione per realizzare i nostri desideri.

Avere tempo a disposizione è l'unica cosa che è veramente indispensabile per realizzare un sogno come quello che si è concretizzato per me, arrivare a Samarcanda e tornare a casa con la mia moto. Prendetevi anche voi il vostro !!




LE TAPPE DEL VIAGGIO



28 luglio 2006 casa - Ancona
280
29 luglio Ancona - Brindisi
590
30 luglio navigazione verso Turchia
0
31 luglio Cesme (TR) - Afyon
423
01 agosto Afyon - Bogazkale - Sivas
742
02 agosto Sivas - Sumela Monastry - Cayeli
597
03 agosto Cayeli - Kutaisi (GEO) - Bakuriani
427
04 agosto Bakuriani - Gori - Tbilisi
194
05 agosto Tbilisi - Lagodehi (AZB) - Baku
594
06 agosto Baku - Penisola Absheron - Sumqait - Baku
240
07 agosto Imbarco traghetto Mar Caspio
0
08 agosto Turkmenbashi (TM) - Balkanabat
196
09 agosto Balkanabat - Ashgabat
442
10 agosto Asghabat - Tolchuka bazar - Erbent - Darvaza
271
11 agosto Darvaza - Nukus (UZB)
315
12 agosto Nukus - Khiva
198
13 agosto Khiva
0
14 agosto Khiva
0
15 agosto Khiva - Buchara
458
16 agosto Buchara
0
17 agosto Buchara - Sashsribaz - Samarcanda
368
18 agosto Samarcanda
0
19 agosto Samarcanda
30
20 agosto Samarcanda - Tashkent
327
21 agosto Tashkent
0
22 agosto Tashkent
0
23 agosto Tashkent - Turkestan (KAZ) - Kizylorda
592
24 agosto Kizylorda, incidente Donatello
120
25 agosto Kyzylorda - Aralsk
476
26 agosto Aralsk - M42 distrutta - Aktobe
623
27 agosto Aktobe - Orenburg (RUS)
282
28 agosto Orenburg - Samara
449
29 agosto Samara - sulla strada a sud di Saratov
643
30 agosto sulla strada a sud di Saratov - Volgograd - Rostov na Dunu
633
31 agosto Rostov na Dunu - Anapa - Kerch (UA)
574
01 settembre Kerch - Feodosia - Jalta - Sebastopoli
381
02 settembre Sebastopoli - Simferopol - Odessa
663
03 settembre Odessa
0
04 settembre Odessa - Tiraspol (Transnistria) - Chisinau (MD) - Galati (RO)
474
05 settembre Galati - Tulcea - Brasov
483
06 settembre Brasov - Sighisoara - Turda - Cluj Napoca
294
07 settembre Cluj Napoca - Sighetu Marmatiei - Debrecen (H)
494
08 settembre Debrecen - Budapest - Liublijana (SLO)
730
09 settembre Liublijana - Udine (I)
257
10 settembre Udine - Monti Lessini - Casa
388

45 GIORNI

14 FRONTIERE

15.228





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