15.228
km in 45 giorni
ITALIA - SAMARCANDA - ITALIA
Foto
di Dino Mazzini e Giovanni Lamonica.
Non
parli russo? (govorish po russki ?)
La domanda e' ricorrente, con i doganieri o con le ragazze.
In questo viaggio di oltre 15.000 km in 45 giorni attraverso
9 stati dell'ex-URSS e' infatti quasi impossibile comunicare
bene con qualcuno se non si conosce il russo, lingua di chi
li ha dominati per almeno 70 anni e che ormai è l'unica
cosa che hanno questi paesi in comune.
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L'autore
del viaggio e del racconto.
un
sogno realizzato.
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Siamo
talmente abituati all'idea di una Europa unita, che abbiamo
dimenticato quali sono i confini del nostro continente. Tra
noi quasi ci mettiamo a litigare, appena entrati in Georgia,
dal confine Turco di Hopa sulle rive del Mar Nero. La Georgia
e' in Europa, sostengono alcuni. No, e' in Asia, sono convinti
gli altri. Ciascuno difende le proprie convinzioni tirando
in ballo gli argomenti più strani: affinità
culturali, religiose e somatiche degli abitanti di questo
paese con noi europei; questioni geografiche di mari e monti
che dividerebbero il nostro continente dall'Asia; c'è
chi addirittura arriva a sostenere l'appartenenza di questa
nazione all'Europa perchè la sua assicurazione e la
carta verde in quel paese sono valide !! E qualcun altro che
dice che la Georgia e’ in Europa perchè nel sito internet
della Lonely Planet la si trova sotto a quella voce, e non
sotto alla voce “Asia”. Nessuno la vuol prendere persa, ci
rendiamo conto ad un certo punto che è meglio sospendere
la discussione e rimandare al nostro ritorno la decisione
su chi aveva ragione. Scopriremo quindi che, almeno da un
punto di vista squisitamente geografico, la ragione era solo
di alcuni: l'Europa l'avevamo lasciata a Istanbul. E dopo
aver percorso le strade di Azerbaijan, Turkmenistan ed Uzbekistan,
l'avremmo ritrovata solo superato il fiume Uralsk che scende
dalla catena degli Urali, al nostro ingresso in Russia, dopo
aver attraversato il Kazakistan. Nello specifico, e' lo spartiacque
delle montagne del Caucaso il confine che pone, a sud di questo,
la Georgia in Asi. Nonostante la religione cristiana ortodossa
di tradizione millenaria, ed i tratti somatici dei suoi abitanti,
due aspetti entrambi tipicamente europei.
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IL VIAGGIO FINO A TASHKENT (29 LUGLIO - 22 AGOSTO 2006)
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Appena
entrati dalla frontiera turca di Hopa sul
Mar Nero, la GEORGIA
si presenta a noi viaggiatori come un paese distrutto, quasi
che fosse appena uscito da una guerra. Nel lungomare, grandi
palazzi in rovina con macerie sparse ovunque, che nessuno
pare preoccuparsi di demolire definitivamente, almeno per
sistemare i bei parchi che le circondano. Lugubri resti che
raccontano comunque di quanto erano sfarzosi. E che lasciano
immaginare quante persone hanno ospitato, quando quel lungomare,
insieme alla Crimea, era il luogo di villeggiatura estivo
dei benestanti dell'impero zarista e poi dei funzionari comunisti.
Sono però le strade quelle che più sembrano
aver sofferto di questa “guerra” immaginaria, fatta di improvvisa
mancanza di risorse economiche private e pubbliche dopo il
tracollo dell’Unione Sovietica. Sono le strade asfaltate più
malridotte che abbiamo visto, nel pur nostro importante girovagare,
anche ad Est. Ne restano percorribili senza troppo problemi
solo alcune, le principali verso la capitale. Tutte le altre
sono un groviera di voragini, profonde a volte anche mezzo
metro, tra cui è indispensabile “zigzagare” quasi a
passo d’uomo, se non si vuole distruggere tutto o peggio farsi
male. Scopriamo qui quanto sia indispensabile avere un assistenza
locale. Le nostre cartine, pur diverse tra loro, sono assolutamente
inaffidabili: strade segnate come principali che sono ormai
in uno stato quasi non transitabile, e strade segnate invece
come secondarie che sono invece mantenute in discrete condizioni.
Queste sono le uniche che possiamo fare, ed è il primo
imprevisto che abbiamo dopo otto giorni da quando siamo partiti
per il nostro viaggio verso est: siamo costretti a cambiare
l’itinerario pianificato prima della partenza. Dobbiamo passare
da Kutaisi e fare così un lungo giro
per raggiungere l’hotel che avevamo prenotato a Bakuriani,
situato nelle bellissime e selvagge montagne ai confini con
l’Armenia. Sulle strade, oltre alle buche, un’altra situazione
che rappresenta un pericolo ma nello stesso tempo rende questo
paese affascinante e diverso da tutti gli altri è rappresentata
dalla incredibile quantità di bestiame errante che
si sposta invadendo continuamente la carreggiata, anche in
gruppi numerosi. L’andatura del nostro gruppo di motociclisti
è così forzatamente lenta, e arriviamo all’hotel
che è già notte fonda. Una situazione che aggiunge
tensione all’avventura di sapersi dentro a foreste selvagge
popolate ancora da orsi, lupi e altra fauna che ormai in Europa
è confinata in aree invece molto ristrette.
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L’indomani
mattina scendiamo verso la capitale, ma prima di arrivare
a Tbilisi merita una nostra sosta la città natale di
Stalin, Gori. In tutta l’ex Unione Sovietica,
ad ornare le piazze, sono ormai pochi i monumenti dei capi
di stato comunisti. Le statue di Stalin erano state rimosse
da molti luoghi già da prima della caduta dell’URSS,
ma qui a Gori, nella sua città natale, c’è ancora
il culto di questa personalità. A parte la piazza dove
troneggia una sua gigantesca statua, c’è un museo dove
sono raccolti tutti i cimeli e dove è accuratamente
descritta l’epopea del dittatore, . La direttrice-guida del
museo ci spiega che il capo di stato protagonista della vittoria
russa sulla Germania Nazista (che per i russi non e’ la “seconda
guerra mondiale” ma è la “grande guerra patriottica”)
non è sepolto qui dove è nato, ma giace nel
piccolo cimitero dietro al Mausoleo di Lenin, nella Piazza
Rossa a Mosca. Nel museo, dovunque ci sono cartelli che proibiscono
di filmare e fotografare, ma la guida insiste perché
noi lo si faccia, in cambio ovviamente di una piccola mancia
per lei. In pochi raccogliamo l’invito: il museo anche se
interessante è comunque un po’ lugubre. Nel cortile
del museo, anche il vagone ferroviario dove Stalin viveva
durante la guerra.
Intorno a Tbilisi ci sono importanti monasteri,
con la inconfondibile architettura di grandi conci di pietra
murata a secco, ed interni molto austeri. I più belli
sappiamo comunque che non sono qui, ma lontano dalla capitale,
sulle montagne del Caucaso dove, tra l’altro, in molte aree
ci sono importanti situazioni di intolleranza all’unità
del paese e solitamente non sicure per i turisti. Noi comunque
abbiamo anche poco tempo, il nostro viaggio e’ quasi all’inizio.
All'interno, incontri interessanti con giorgiani in pellegrinaggio
religioso che portano agnelli in omaggio ai monaci.
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Alla
frontiera secondaria di Lagodechi lasciamo
la Georgia ed entriamo in AZERBAIJAN.
Alla dogana, già si capisce che la situazione politica
del paese, seppur tranquillissima, è molto diversa
da quella che ci si aspetta normalmente da una repubblica.
Negli spazi di attesa, appese ai muri, decine e decine di
foto dell'ex-Presidente e di quello attuale, ripresi in tutte
le occasioni. Viene da pensare però più ad una
reggenza che ad una presidenza: sono padre e figlio !! Ci
accompagneranno fino al momento di lasciare il paese, visto
che le strade sono tappezzate di enormi cartelloni con le
loro belle facce sorridenti. Le formalità doganali
richiedono molto tempo, nonostante la nostra assistenza locale.
In aggiunta a questo, al primo distributore di carburante
perdiamo anche tanto tempo a discutere con i gestori, convinti
che ci stiano imbrogliando. La moneta dell'Azerbaijan, molto
svalutata, è stata di recente convertita a valori più
pesanti, e le banconote sono entrambe in circolazione. A differenza
però di altri paesi (Es. Turchia, Romania ecc..) dove
la conversione dal vecchio e nuovo corso è stata fatta
togliendo 4 o 5 zeri dal valore precedente, qui hanno pensato
bene di complicare la cosa rapportando a 5000 il vecchio valore.
La conseguenza è che i prezzi alla pompa sono ancora
espressi nel valore precedente, si paga con la moneta attuale
che a noi ci hanno dato al cambio alla frontiera, ma il resto
loro ce lo danno con banconote del vecchio corso. Impossibile
capirci qualcosa: rassegnati al probabile piccolo furto sul
resto dopo aver perso troppo tempo a discutere ripartiamo
verso est.
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Ma
incontriamo ugualmente il buio che siamo ancora a 100 km dalla
capitale, Baku. Su un altura, mentre procediamo
ad andatura piuttosto sostenuta, veniamo fermati da un posto
di blocco di polizia. Ci aspettiamo multe o peggio, la nostra
assistenza locale con il furgone è rimasta molto indietro,
dobbiamo sbrigarcela da soli. I poliziotti discutono tra loro
animatamente su quel che sia giusto fare. Qui in Azerbaijan
parlano una lingua molto simile al turco, e qualche parola
di quella lingua c’è familiare. Di quel che dicono
tra loro, ci sembra di capire che è vietato alle moto
circolare con il buio…. Ci inseriamo nella conversazione facendogli
osservare che noi dobbiamo in ogni caso arrivare all’hotel,
già pagato. Sono molto sorpresi e contenti di vedere
che riusciamo a comunicare con loro nella loro lingua, e decidono
di farci proseguire, scortandoci con le auto fino alla capitale.
Un auto in coda ed un auto di fronte, ripartiamo accoppiati
due a due con l'ordine di restare uniti e percorriamo così
nel buio gli ultimi 100 km, osservando comunque nella semioscurità
che il paesaggio è ormai completamente cambiato. Non
più le foreste ed i campi verdi della Georgia, ma una
arida distesa collinare molto simile ad un deserto. Alla periferia
della capitale, la nostra scorta militare ci lascia: siamo
preparati ad una richiesta in denaro, per il servizio ed il
“favore” di lasciarci proseguire, ma questa non arriva. Ci
offriamo quindi noi di omaggiarli di qualcosa, ma loro rifiutano
cortesemente: quello che hanno fatto è stato solo per
amicizia.
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Baku
e dintorni è uno dei posti più inquietanti del
pianeta. Da circa un centinaio di anni estraggono petrolio
dalle spiagge e dai terreni circostanti la città. Qui
l’Unione Sovietica aveva tutti gli impianti chimici che servivano
alla nazione. Pompe petrolifere ormai più che obsolete
continuano ad estrarre l'oro nero, che in parte fuoriesce
dalle conduttore fatiscenti, mescolandosi con l’acqua e disperdendosi
sul terreno ed in mare. Non bastasse, grovigli di tubi arrugginiti
perdono gas colorati e puzzolenti dalle poche fabbriche chimiche
ancora funzionanti nella città chimica di Sunmqait
40 km a nord, mentre quelle già chiuse ben rappresentano
lo sfacelo di un certo modello di sviluppo. Diverse decine
di Km quadrati di metallo arrugginito: attraversarlo è
vivere una esperienza da “the day after”. Qui in quest’area
c’è una altissima incidenza di malformazioni neonatali
e c’è perfino un cimitero dei deformi, che è
diventata una “attrattiva turistica”, che noi però
evitiamo. Preferiamo recarci in visita al tempio degli adoratori
del fuoco nella penisola di Absheron. La
presenza di gas naturale in questa terra era nota fin dall’antichità,
e qui si erano insediati nuclei di adoratori del culto di
Zoroastro. Qui avevano costruito i loro templi, dove vivevano
di elemosina, mortificandosi nel corpo con punizioni corporali
e digiuni. Le fiammelle del tempio ormai sono alimentate da
conduttore artificiali, visto che il gas sotterraneo in quel
punto è esaurito. Il fuoco viene acceso solo quando
arrivano i turisti, con alte pertiche con uno straccio legato
sulla sommità che viene incendiato prima di alzarle
fino a raggiungere i camini. A sud di Baku visitiamo nel pomeriggio
un importante sito con incisioni rupestri preistoriche e resti
di insediamenti che dimostrano che all’epoca il Mar Caspio
era molto più esteso rispetto ai giorni nostri, e copriva
gran parte delle pianure che lo circondano. Attualmente il
Caspio, che più propriamente è un lago e non
un mare, e’ circa 20 metri sotto al livello degli altri mari,
e tutta la sua area è una grande depressione sulla
crosta terrestre. Vicino alle incisioni preistoriche, anche
una pietra miliare con l'iscrizione di un centurione romano:
il reperto dimostra che i romani arrivarono fino a qui, e
questo e' il punto più distante raggiunto dall'impero.
Il centro di Baku la sera è piacevole. Il lungomare
è costellato di ristoranti dove si mangia e si può
assistere a spettacoli di mangiatori di coltelli e ballerine
del ventre.
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Il
nostro viaggio verso est prevede che noi si arrivi in Turkmenistan
attraversando questo grande lago. Esiste una flotta di vecchi
traghetti , riadattati per trasportare vagoni ferroviari,
che un tempo erano in servizio in Adriatico nell’ ex-Iugoslavia,
portati qui dal Mediterraneo attraverso il mar Nero ed il
canale Volga-Don. Trasportano petrolio in una direzione e
cereali in quell’altra, facendo spola tra le due rive in circa
12 ore. Non hanno però orari ufficiali ed in teoria
non potrebbero caricare passeggeri, se non in numero molto
limitato (meno di una decina). Noi siamo partiti sapendo che
comunque in qualche modo, grazie alla nostra organizzazione
locale, saremmo riusciti a passare tutti. Al mattino presto
la trattativa negli uffici del porto sembra essere andata
a buon fine. Alle 11 e 30 già 16 delle 18 moto del
gruppo sono nella pancia della nave a fianco dei vagoni, quando
improvvisamente una figura nuova dell’equipaggio compare urlando
nella stiva ed in malo modo ricaccia tutte le moto fuori.
Scopriamo così di aver trattato al mattino con il vice-comandante,
e non con il comandante, ad insaputa di quest’ultimo. Questo,
forse solo per far capire al suo vice chi comanda veramente
sopra alla nave, sembra non volerne saperne di noi, che pur
abbiamo già pagato, ed anche caro, per il servizio
che ora ci viene negato. Ricomincia allora una nuova trattativa
con lui, nella quale interviene anche la polizia di frontiera
che già aveva fatto tutte le formalità per la
nostra partenza (e che aveva già da noi ricevuto il
nostro scontato e lauto omaggio) fino a quando riusciamo finalmente
a risalire, mentre la nave già ha mollato gli ormeggi
e quasi si appresta a chiudere le paratie. La traversata dura
di più delle 12 ore previste, e la sistemazione è
quanto di più scomodo e sporco si possa immaginare.
Ma al mattino all’alba, all’arrivo nel porto di Turkmenbashi,
la banchina è impegnata da una altra nave: vengono
così calate le ancore per ore, senza che si possa sbarcare,
e la sofferenza continua fino a mezzogiorno.
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L’arrivo
in TURKMENISTAN
avviene così per noi proprio nel momento più
caldo della giornata. La colonnina del mercurio nel piazzale
dove sono parcheggiate le moto arriva a 52°. All’interno
della dogana, le lunghe formalità comprendono, tra
le altre cose, per i turisti stranieri, il pagamento di una
somma anticipata quale differenza tra il costo della benzina
all’interno del paese ed il costo della benzina normalmente
applicato nelle nazioni vicine. Per percorrere circa 1.200
km in questo paese paghiamo così in frontiera solo
per questa tassa circa 80 dollari a testa. Poi nei giorni
seguenti pagheremo in totale per il carburante non più
di 4 dollari: con un dollaro si comprano infatti oltre 20
litri di benzina. Il costo così basso del carburante
non è l’unica stranezza di questo paese. Ci racconta
la guida che alcune cose, considerate popolari, costano così
poco che non esiste il modo di pagarle: ad esempio un biglietto
per una corsa in bus nella capitale Asghabat costa una somma
che non esiste una moneta altrettanto bassa con cui pagarla.
Se in Azerbaijan il culto della personalità dei capi
di stato della “repubblica” ci era sembrato eccessivo, qui
in Turkmenistan sfiora il ridicolo. Oltre alle gigantografie
del viso del presidente (un ingegnere funzionario di partito
nominato da Gorbaciov poco prima del disfacimento dell’Unione
Sovietica) che sono onnipresenti sulla strada e in tutti i
luoghi più o meno pubblici, (hotel compresi) esistono
anche statue d’oro con la sua immagine a figura intera. Nella
capitale, una ditta francese da anni sta procedendo alla demolizione
di interi quartieri e alla costruzione di edifici giganteschi
in marmo bianco. Con uno sfarzo che un poco disturba gli animi,
in questo paese dove ai lati strada trovi tanta povera gente
ad aspettare un cliente un giorno intero sotto al sole per
vendere pochi pomodori o un cocomero. Tra questi edifici sfarzosi,
una nuova moschea che è ora la più grande di
tutta l’Asia centrale, costruita nel luogo natale della madre
del Presidente, in memoria della quale è stato ribattezzato
anche il mese di aprile, chiamato ora con il suo nome. Sulla
strada tra Turkmenbashi sul mar Caspio e
la capitale, pochissimi centri abitati ma innumerevoli posti
di blocco: li superiamo agevolmente solo grazie alla nostra
guida locale che ha già, pronte da lasciargli, decine
di fotocopie di elenchi con tutti i nostri dati, oltre (immaginiamo)
il solito lauto omaggio. I tratti somatici degli abitanti
sono già cambiati ed ora si vede molto bene, soprattutto
negli occhi, che siamo inequivocabilmente in Asia. Compaiono
a lato strada anche i primi dromedari (quelli con una gobba
sola!!) talvolta in gruppi numerosi. Un centinaio di km prima
di Asghabat, azzardiamo una deviazione dalla strada principale.
Vogliamo recarci in una località poco distante dove,
a circa un centinaio di metri di profondità, in una
grotta, esiste un lago di acqua calda dove si può fare
un bagno, raggiungibile da una apertura in superficie. Abbiamo
percorso solo poche centinaia di metri in quella direzione
quando un’auto che ci seguiva senza troppo clamore ci supera
e ci ferma. E’ la polizia, che ci tiene sotto controllo dal
giorno prima. Ci dicono che dobbiamo tornare indietro: in
frontiera, al nostro ingresso in Turkmenistan, quella strada
non l’abbiamo dichiarata tra quelle del nostro percorso. Riusciamo
a convincerli a tenerci sotto controllo in modo diverso dal
solito venendo anche loro a fare il bagno sotterraneo con
noi.
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All’arrivo
ad Asghabat, la capitale, veniamo tutti fermati
all’ennesimo posto di blocco. Poi cinque auto a sirene spiegate
ci scortano nel parcheggio del lussuoso hotel, dal quale però
ci dicono non possiamo allontanarci, né in moto né
a piedi, fino al giorno dopo, quando loro torneranno e ci
accompagneranno verso il mercato di Kulcuka ed il deserto
del Karakum. Ci sentiamo un po’ prigionieri, ma facciamo buon
viso a cattiva sorte. I pochi che provano prima di cena a
spingersi a piedi nei viali della città dove ci sono
i palazzi più nuovi e belli, per fotografare qualcosa
di questa città, vengono immediatamente rimproverati
dalle guardie (presenti sulla strada a distanza tra loro di
non più di 50 metri) e sono di fatto costretti ritornare
all’hotel.
Il mattino dopo, per noi una delle visite più belle
di tutto il viaggio: il bazar del giovedì di Tolkuchka.
Una esplosione di colori, odori, suoni, movimenti che e’ molto
difficile descrivere a parole. Una di quelle situazioni che
vanno vissute per essere capite. Una moltitudine di persone
in abiti tradizionali che si scambiano ed acquistano merci
tipiche necessarie per la loro vita quotidiana. Non il mercato
ormai solo per turisti come può essere citato ad esempio
il Gran Bazar di Istanbul.
E’ quasi mezzogiorno quando iniziamo la traversata del deserto
del Karakum, e ci sono sempre i 50 gradi che c’erano anche
il giorno prima. Il blu intenso del cielo, come non abbiamo
mai visto prima, ci tranquillizza che però e’ un caldo
assolutamente secco, ben sopportabile in moto, a condizione
di stare molto coperti e viaggiare con il casco chiuso. E’
indispensabile bere continuamente tanta acqua: alcuni di noi
hanno una bottiglia nella borsa da serbatoio, che prendono
ed usano mentre sono in marcia, altri più preparati
hanno vere e proprie sacche di acque a zainetto dalle quali
bevono con un tubo ed un beccuccio. Il villaggio di Erbent
è l’ultimo centro abitato prima dei 300 km di nulla
che finiranno vicino al lago di Aral, ai confini dell’Uzbekistan.
Non c’è acqua potabile nelle case, se non quella trasportata
continuamente da cisterne. La sera solo alcuni generatori
diesel forniscono quel poco di energia elettrica per far funzionare,
ad esempio, i frigoriferi per congelare bottiglie di acqua
e bibite che durante il giorno successivo saranno vendute,
ancora fresche nonostante il caldo infernale, ai pochi turisti
o viaggiatori che transitano da li, ad esempio noi. La strada
asfaltata, fino alla località ormai scomparsa di Darvaza,
è stata appena rifatta e l’andatura è molto
sostenuta. Ci fermiamo solo per una sosta presso un cratere
formatosi decine di anni fa a seguito di una esplosione di
gas, dove adesso c’è acqua fredda ribollente del gas
che continua a fuoriuscire, ed arriviamo nel tardo pomeriggio
all’accampamento, mentre si alza un fastidioso vento che solleva
la sabbia. La polizia ci saluta e torna alla capitale, noi
invece, dopo un pasto frugale che con il senno di poi (visti
i successivi problemi intestinali a tutti) era meglio saltare,
nella notte a turni di 5 alla volta con il fuoristrada della
nostra guida ci rechiamo in visita al cratere di fuoco. Questo
singolare luogo turistico fu provocato come gli altri crateri
della zona da una esplosione di gas, che continua ad uscire
ed a bruciare, creando una situazione la notte che merita
assolutamente di essere vista.
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Al
mattino all’alba la partenza dall’accampamento di Darvaza
è rallentata da un incidente tecnico accaduto nella
notte precedente: nei serbatoi di alcune moto, durante il
rifornimento con le taniche trasportate dal furgone di appoggio,
è stata messa acqua invece che benzina. Impieghiamo
ore per rimediare all’accaduto e siamo così costretti
a percorrere in fretta i 200 km di strada che ci separano
dal confine Uzbeko, con l’ansia di arrivare tardi alla frontiera
che chiude alle 18. E' una strada che a differenza dei 300
km del giorno prima è però ancora da rifare
e versa in condizioni disastrose, con buche profonde anche
mezzo metro. Un calvario che vede alla fine diverse moto uscirne
con i supporti valigie o delle carenature troncati, gli ammortizzatori
estremamente provati ed in un caso addirittura un telaio spezzato
nella zona di attacco del baule posteriore. Un motociclista
del gruppo inoltre sta molto male: non ha bevuto a sufficienza
nei due giorni passati, ed ha anche (come quasi tutti) un
po’ di problemi intestinali. Rischia il collasso mentre facciamo
le operazioni doganali.
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Superato
il breve spazio di terra di nessuno interposta tra le due
nazioni, appena arrivati alla frontiera di entrata in UZBEKISTAN
chiamiamo una ambulanza e con alcune fleboclisi reidratanti
in poche ore di ricovero lo salviamo da quella brutta situazione.
La sua moto viene presa da un altro motociclista del gruppo
che prima di arrivare ad Asghabat, era rimasto appiedato per
un guasto al cuscinetto del cardano della sua BMW gs 1150
Adventure, e che ci seguiva tristemente con la moto caricata
sul nostro furgone di appoggio.
Nukus è la nostra meta dopo il deserto.
Un tempo era una città fiorente che godeva della sua
posizione: non troppo lontana dal mare di Aral, molto pescoso,
e circondata dalle coltivazioni intensive di cotone. Ora è
in disastrosa decadenza e con gravissimi problemi ambientali.
I pesticidi usati in decenni di coltivazione intensiva e finiti
con le acque nel lago che si sta prosciugando stanno tornando
nell’aria grazie ai venti impetuosi che sollevano la polvere
creatasi con la desertificazione dell’area. I veleni sono
anche presenti nelle falde acquifere sotterranee collegate
al lago, che rappresentano la risorsa potabile per gli abitanti.
In conseguenza di questo disastro ecologico, l’aspettativa
di vita degli abitanti è molto più bassa che
nelle altre zone del paese. L’hotel dove possiamo alloggiare
risente di questa situazione ed è praticamente invivibile.
E’ il secondo imprevisto del nostro viaggio: decidiamo di
restare in quel luogo solo una notte ed annulliamo la programmata
escursione fino a Moniaq, un tempo porto
sul lago di Aral ed ora spettrale cimitero di navi in secca,
e ci dirigiamo a sud.
Nel XIX secolo il nome di Khiva incuteva
paura, evocava carovane di schiavi, terribili viaggi attraverso
deserti e steppe infestate da tribù selvagge, crudeltà
barbariche. Era governata dai Khan, che mantenevano il loro
potere attraverso la tortura ed esecuzioni sommarie. In un
reportage del 1863 un giornalista ungherese raccontò
di aver visto 8 anziani a terra ai quali venivano strappati
gli occhi. Il carnefice man mano procedeva nel suo lavoro
puliva il suo coltello nella loro barba. L'impalatura era
uno dei sistemi più utilizzati per la messa a morte
dei condannati: questi impiegavano anche due giorni per morire.
A chi invece veniva sorpreso a compiere reati minori, es.
a fumare o bere alcolici, veniva praticato un taglio della
bocca da orecchio ad orecchio che gli deturpava il viso in
un sorriso beffardo. I Khan si opposero a qualsiasi forma
di modernizzazione e furono tolti di mezzo solo nel 1924 quando
l'area fu annessa alla neonata Repubblica Socialista dell'Uzbekistan.
I Russi, nei loro tentativi di conquista effettuati a partire
dal 1874, si resero comunque artefici di atrocità collettive
sulla popolazione altrettanto indegne di quelle dei Khan.
La città era ricca di madrasse e minareti, decorati
con ceramiche azzurre, e moschee, la più famosa delle
quali ha 215 colonne di legno che sostengono il tetto. Il
tutto racchiuso tra imponenti mura di fango, che sono ai giorni
nostri ricostruite come il resto della città museo.
Questo gioiello, sicuramente il più prezioso di tutto
l'Uzbekistan, è un po' lontano dalle altre località
che i turisti, scesi all'aeroporto internazionale di Tashkent,
di solito raggiungono in autobus. Per questo motivo e' più
tranquillo e godibile, soprattutto al tramonto e alla notte.
Per noi a Khiva nessun problema, ma solo un piacevole incontro
da raccontare. La mia moto parcheggiata dentro al cortile
dell'hotel su un asfalto appena rifatto crolla di lato: si
rompe lo specchio laterale. Giorni prima, centrando una buca
nella strada nel deserto del Karakum, si era anche spezzato
il supporto delle valigie. Approfittando dei tre giorni di
sosta, decido di provare a riparare il possibile. In mio aiuto,
mandato dalla reception dell’hotel, arriva un ragazzo locale,
che mi accompagna in auto da un saldatore per alluminio e
mi ripara pure lo specchio, saldando in qualche modo a lui
conosciuto la plastica e sostituendo la parte riflettente
con una presa da uno specchio normale. Il ragazzo è
fuori di se per il nostro incontro e vuole a tutti i costi
farmi conoscere la sua famiglia. Mi porta così nella
sua casa dove, tutto orgoglioso, oltre al minareto privato
vecchio di 500 anni mi mostra anche una piccola moto russa
parzialmente smontata e con il serbatoio stranamente tagliato.
Appeso alla parete del garage un poster di una moto giapponese:
lui mi spiega che sta modificando l’estetica della sua moto
per farla diventare il più simile possibile a quella
del poster, vuole fare un modello “kaklamac”, che è
il suo nome di battesimo. Non posso non sorridere a questa
iniziativa, anche perchè mi accorgo che Kaklamac è
molto simile in viso al protagonista indiano di una famosa
pubblicità televisiva di una utilitaria francese, che
con l’aiuto di un elefante e di piccoli urti contro un muro
cerca di trasformare la sua vecchia auto indiana nell’auto
dei suoi sogni, con un risultato però molto approssimato
e ridicolo. Auguro al ragazzo di riuscire nella sua opera
e mi congedo, non prima di avergli promesso l’invio di un
casco moderno al mio ritorno in Italia.
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Tra
Khiva e Buchara ci sono 500 km di strada con un buon asfalto
che attraversa in gran parte il deserto rosso. E’ però
praticamente impossibile trovare benzina ai pochi distributori
di carburante che esistono: tutti i locali vanno a prenderla
di contrabbando dal vicino Turkmenistan, dove come abbiamo
detto non costa nulla. La nostra guida con il furgone inizia
così un pellegrinaggio da famiglia a famiglia per riuscire
a riempire i fusti che poi serviranno a colmare i serbatoi
delle moto, per consentirci di arrivare a destinazione.
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Ho
detto prima delle atrocità dei Khan di Khiva. Gli emiri
di Buchara non erano da meno. Fece scalpore
nell'Inghilterra vittoriana del 1842 la messa a morte dei
due ambasciatori brittannici Stoddart e Connoly, decapitati
al suono di tamburi e zampogne di fronte alla folla dopo essere
stati costretti a scavarsi la propria fossa. Il primo era
reo di essere arrivato a Buchara per rassicurare l'Emiro sulle
intenzioni inglesi circa l'Afghanistan recando una lettera
del governatore dell'India e non della Regina Vittoria (che
lui considerava al suo pari sovrana), senza doni e violando
pure il protocollo, arrivando al palazzo dell'Emiro a cavallo
invece che a piedi. Il secondo fu inviato per ottenere il
rilascio del primo ma per sospetto su un complotto con i Khan
di Khiva fu imprigionato anche questo. Dopo la loro morte,
l'opinione pubblica inglese chiese la guerra ma il governo
decise di lasciar perdere la faccenda. Parenti ed amici infuriati
raccolsero fondi privati per mandare un emissario a verificare
la questione. Reclutarono un religioso stravagante che si
salvò dalla morte solo perche' l'Emiro lo trovò
ridicolo nei suoi abiti cerimoniali. A confronto delle ceramiche
azzurre di Khiva, il rosso mattone dei palazzi monumentali
di Buchara è un po' una doccia fredda ma questa città
conserva il maggior numero di edifici protetti di tutto l'Uzbekistan.
Il minareto Kalon e' una opera d'arte originale del 1127,
salvatosi anche dalla furia di Gengis Khan che lo trovò
troppo bello per raderlo al suolo come usualmente faceva sul
suo cammino con tutto il resto che incontrava. In 880 anni
non ha mai avuto bisogno di restauri. Le decorazioni di mattoni
sono divise in 14 fasce l'una diversa dall'altra. L'ARK, una
città regale nella città, è la costruzione
più antica di Buchara, abitata dal V secolo fino al
1920, anno in cui fu bombardata dall'Armata Rossa.
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Timur-i
lang ossia Timur "lo zoppo", occidentalizzato
in TAMERLANO (1336 - 1405) fu il fondatore
della dinastia timuride, attiva in Asia Centrale e nella Persia
orientale. Arrivò a governare un immenso impero che
in termini di nazioni moderne copriva Turchia sudorientale,
Siria, Iraq, Kuwait, Iran e buona parte dell’Asia Centrale
fino a una zona del Pakistan, avvicinandosi addirittura a
Kashgar nell’attuale Xinjiang (Cina). Di
origine mongola, nacque a Kesh, attuale SHAkSRIBAZ,
e
presto divenne capo del suo clan. Nel 1370 iniziò le
sue scorribande con la conquista dell'Iran e del caucaso meridionale.
Segui una campagna in India con il saccheggio di Delhi e poi
la conquista della Siria. Morì durante la spedizione
in Cina che iniziò allo scopo di ricostituire nella
sua completezza l'impero mongolo che era stato scacciato dai
primi imperatori Ming. Le sue gesta vittoriose furono narrate
dai cronisti orientali dell'epoca, a lui favorevoli, e da
un cronista arabo che invece descrisse le nefandezze delle
sue incursioni, raccapriccianti. Anche se la presa di Isfahan
in Iran nel 1387 non vide la resistenza degli abitanti della
città, il massacro che seguì fu determinato
dal rifiuto della popolazione locale di pagare tributo, o
forse anche dall'uccisione di alcuni soldati della guardia.
Alcune fonti ricordano le orribili torri di teste ammassate
nella città a seguito dell'immane strage della popolazione
(circa 100.000 morti). Ricordato nella cronaca anche il massacro
di tutti gli abitanti di Delhi in India (i sopravissuti furono
ridotti in schiavitù e deportati a Samarcanda) e quello
di Aleppo, in Siria, dove solo gli artigiani furono risparmiati,
allo scopo anche questi di portarli alla capitale per la costruzione
dei palazzi.
A Shaksribaz un imponente monumento a figura intera di Tamerlano
si erge di fronte alle rovine del suo palazzo che superava
per magnificenza qualsiasi altra costruzione di Samarcanda.
Questo palazzo fu distrutto nel XVI secolo dall'emiro di Buchara
e ora resta solo il gigantesco ingresso alto 40 m ricoperto
di splendidi mosaici bianchi, blu ed oro.
Tamerlano
è sepolto nel Mausoleo Gur-e Amir a Samarcanda. Il
corpo di Tamerlano fu esumato dalla sua tomba nel 1941 dall'antropologo
russo Mikhail M. Gerasimov, il quale scoprì che le
caratteristiche facciali si conformavano a fattezze mongoloidi,
il che avrebbe confermato la pretesa dello stesso Tamerlano
di discendere da Genghis Khan. L'esumazione confermò
inoltre che il morto era zoppo e dal teschio, Gerasimov riuscì
anche a ricostruire l'aspetto di Tamerlano. Una tradizione
vuole che sia stata scagliata una maledizione contro chi avrebbe
violato la tomba. La maledizione si sarebbe gia' manifestata
due volte. La prima sul persiano Nadir Shah (1736-1747), che
di ritorno dall'India avrebbe asportato la tomba (un unico
blocco di giada verde), dopo che i tentativi di aprirla vi
avrebbero provocato una crepa. I guai che ne conseguirono
furono tali da convincerlo a far riportare la tomba a Samarcanda
ma il persiano finì ugualmente assassinato. La seconda
fu appunto l'esumazione dello studioso:
l'apertura avvenne il 19 giugno 1941, e tre giorni più
tardi, il 22 giugno, i nazisti scatenarono l'Operazione Barbarossa,
ovvero l'invasione dell'Unione Sovietica. La sorte volle tuttavia
che nel 1942, poco dopo che lo scheletro di Tamerlano (con
quello del nipote Ulu Beg) fu sepolto di nuovo secondo il
rito musulmano, avvenisse la resa dei nazisti a Stalingrado.
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"We
travel not far trafficking alone. By hotter winds our fiery
hearts are fanned. For lust of knowing what should not be
known. We take the Golden Road to Samarkand."
(James
Elroy Fecker, The Golden Journey to Samarkand, 1913).
Non viaggiamo solo per il commercio. Da venti
più caldi sono infiammati i nostri cuori ardenti. Per
la bramosia di conoscere quel che non dovrebbe essere conosciuto.
Percorriamo la strada dorata di Samarcanda.
Nessun nome richiama alla mente la Via della Seta come quello
di Samarcanda. Resa immortale nell'immaginario
popolare dell'occidente da poeti e scrittori di epoche passate
(e cantanti italiani ancora in voga) per molte persone ha
la stessa risonanza di città mitologica di Atlantide.
In realtà dopo aver visto Khiva, Buchara e Shaksribaz,
la città attuale un po' delude. I monumenti incredibili
fatti erigere da Tamerlano e suoi discendenti nel XIV e XV
secolo quando Samarcanda era l'epicentro economico e culturale
dell'Asia Centrale, sono ormai delle isole all'interno di
un agglomerato urbano stile sovietico che non ha niente di
interessante. All'interno di quelle isole pero' si respira
comunque un'atmosfera magica che da sola vale il viaggio.
Il Registan è un complesso straordinario di madrase
(scuole coraniche), una profusione quasi esagerata di maioliche
e mosaici azzurri ed ampi spazi proporzionati. La moschea
di Bibi-Khanym annessa al Registan secondo la leggenda fu
fatta costruire dalla adorata moglie di Tamerlano mentre lui
era assente. L'architetto si innamorò di lei e si rifiutò
di terminarla, a meno che lei non gli avesse dato un bacio.
Tale gesto lasciò un segno e Tamerlano quando lo vide
fece giustiziare l'architetto e ordinò che le donne
per il futuro indossassero il velo per non rappresentare una
tentazione per gli altri uomini. Era la piu' grande moschea
e per costruirla furono utilizzate le tecniche più
moderne dell'epoca. Nonostante questo, le sue dimensioni crearono
sempre problemi strutturali e la volta crollò definitivamente
alla fine del diciannovesimo secolo durante un terremoto.
Il mausoleo di Guri Amir, altra isola nella città,
racchiude le spoglie del condottiero, ed è molto particolare
nella sua illuminazione notturna. Come in altri mausolei mussulmani,
le lapidi hanno solo una funzione indicativa e le cripte vere
e proprie si trovano in una camera sottostante. Il custode
si offre di farcele visitare, ovviamente dietro lauta mancia.
Samarcanda ci assorbe due giorni interi. Nella visita, siamo
accompagnati da Nasiba, una giovane ragazza insegnante di
Italiano nella locale università, che insieme ad Amber,
il nostro accompagnatore in tutta la nostra permanenza in
Uzbekistan, rimangono uno dei ricordi più belli del
nostro viaggio.
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Ripartiamo.
Per il gruppo il viaggio si avvia ormai al termine. All’arrivo
a Tashkent, la capitale, abbiamo una sorpresa:
per motivi di sicurezza del Presidente, il transito in città
è vietato alle moto. Ci tocca quindi un’altra lunga
attesa al posto di blocco per aspettare l'arrivo dell’auto
scorta della Polizia che ci può accompagnare fino all’hotel.
Dopo
tutte le meraviglie incontrate, la capitale non offre niente
di particolarmente interessante. Unica curiosità, un
po' angosciante, lo "spettacolo" del passaggio del
Presidente e della sua scorta armata (blindati fuoristrada,
neri, con diversi uomini incappucciati di nero fuori dai finestrini,
a mitra spianato puntato verso i marciapedi) due volte al
giorno sulla strada che dal palazzo del Governo porta alla
sua residenza.
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IL
RITORNO DA TASHKENT (23 AGOSTO - 10 SETTEMBRE 2006) |
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Dopo
due giorni in città per organizzare la spedizione aerea
in Italia delle 13 moto dei componenti il gruppo che terminano
qui il loro viaggio, in 5 ripartiamo per il nostro viaggio
di ritorno in Europa, via terra attraverso il KAZAKISTAN.
Per arrivare nella Russia Europea, ci aspettano quasi 2.000
km di strade, alcune di queste in condizioni impossibili,
come abbiamo saputo dai pochi turisti incontrati finora che
le hanno appena percorse con camper. La frontiera sembra un
grande mercato, le formalità sono abbastanza veloci
ma l’assenza di qualsiasi rispetto delle più ovvie
regole della circolazione stradale ha creato una situazione
nei dintorni che facciamo fatica ad attraversare anche in
moto: decine e decine di auto incastrate tra loro non riescono
più ad andare ne’ avanti ne’ indietro ed occupano tutta
la carreggiata. Gli autisti sembrano tutti impazziti, nessuno
vuole retrocedere dalla posizione che ha “conquistato” anche
se non va’ più avanti da li ed impedisce anche agli
altri di fare altrettanto. Usciti da quel blocco assurdo,
il trasferimento di quasi 500 km fino all’unica città
importante della zona dove possiamo trovare da dormire, Kizylorda,
è comunque molto veloce, grazie ad un asfalto quasi
perfetto ed al traffico inesistente. Sulla strada solo una
sosta a Turkestan dove c’è una scuola
coranica (Madrassa) tra le meglio conservate di tutta l’Asia
centrale.
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L’incidente
occorso a Donatello il giorno dopo crea una situazione
per noi molto difficile. In pieno deserto, in una semicurva,
un auto di kazaki prepotenti tampona violentemente il Transalp
che procedeva più lentamente al mio fianco, facendolo
cadere e spingendolo avanti per una decina di metri. La moto
ha lievi danni che poi ripareremo da un saldatore locale,
ma Donatello si rialza con un dolore al polso che non gli
consente di guidare. Con enormi difficoltà riusciamo
a raggiungere un ospedale e grazie ad innumerevoli telefonate
a Nasiba, la nostra guida che avevamo a Samarcanda e che in
quel modo ci fa da interprete con i medici del posto, riusciamo
a controllare cosa è successo. Il referto del radiologo
parla di una lieve frattura dell’osso dell’avambraccio, a
livello del polso: è necessario fare un gesso. La situazione
è disperata, la città più vicina dove
in qualche modo noi si possa organizzare un rimpatrio della
moto e del pilota è a 800 km di distanza. Riusciamo
a ripartire in fretta da Kizylorda senza abbandonare Donatello
grazie all’iniziativa che prendiamo il giorno dopo. Al mattino
presto abbordiamo davanti all’hotel un camioncino che si appena
fermato per una sua commissione. Con la cartina in mano e
disegnando su un foglio di carta la moto caricata sul cassone
del camion, riusciamo a spiegare all’autista che a noi ci
serve immediatamente un passaggio per fare 1800 km fino al
confine con la Russia. Inizialmente ci scambia per pazzi,
poi quando capisce che ci sono per lui molti dollari da guadagnare
l’accordo con noi è presto raggiunto. Dopo poche ore
si parte per un viaggio che per lui, dovendo poi ritornare
indietro, sarà di oltre 3000 km.
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Aralsk
è la nostra tappa della sera. Come Monyaq in Uzbekistan,
anche questa fino ad un decennio fa era una cittadina marittima
sul lago di Aral. Ora le acque del lago per colpa delle politiche
agricole sovietiche degli anni '60 e '70 si sono ritirate
di 60 km. Le gru sul porto ormai secco, le navi arrugginite
appoggiate su un fianco, la polvere e l’abbandono che regnano
ovunque mettono una tristezza profonda. Sulla strada, prima
di arrivare ad Aralsk, passiamo anche a fianco della base
missilistica dalla quale sono partite e partono tutte le imprese
spaziali dei russi.
L’indomani ci aspetta la tappa più dura di tutto il
viaggio. 600 km verso nord sulla M42 per
arrivare ad Aqtobe, la città Kazaka
vicina al confine russo. Una tappa che durerà 15 ore.
300 km a metà giornata si rivelano quanto di peggio
ci si possa immaginare da quella che in teoria sarebbe una
strada asfaltata. Li percorro quasi tutti in prima e seconda
marcia, e nonostante questa lenta andatura la moto ha ulteriori
danni alle sospensioni. Ci sono dei tratti nei quali entrare
ed uscire continuamente dalle buche profonde presenti fa assomigliare
la marcia ad una discesa in moto giù per una scalinata
invece che ad un viaggio su una strada pianeggiante. Il paesaggio
è monotono ma affascinante. Non esiste una minima altura:
le aquile se ne stanno in osservazione ed in caccia appollaiate
sui legni alti poco più di un metro che a lato strada
indicano la progressiva in km. Lunghissimi treni trasportano
centinaia di cisterne di petrolio. Ogni tanto, incontriamo
piccoli cimiteri mussulmani con moschee e case in miniatura
come tombe di famiglia che li fanno assomigliare a villaggi
per gnomi. Qualche giovane pastore a dorso di asino che sorveglia
mandrie miste di bovini e pecore. E anche cammelli (quelli
a due gobbe) che non avevamo ancora visto prima.
Dopo il nostro sbarco in Turkmenistan, il cielo era diventato
blu intenso e non era più cambiato. Ma superato quel
tratto di deserto Kazako, ormai vicini alla Russia, ricompaiono
le prime nuvole, bianche, più o meno grandi e separate
l’una dall’altra, che fanno sembrare i grandi spazi del paesaggio
che ci circonda ancora più vasti. E la sera incontriamo
anche la prima pioggia da quando siamo partiti, dopo ormai
30 giorni.
Avevamo detto in Georgia della non affidabilità delle
carte geografiche nell’indicare le strade principali e quelle
secondarie: qui in Kazakistan la situazione è anche
peggio. Le strade internazionali segnate come le migliori
scopriamo che sono tra le più rovinate e praticamente
intransitabili (un esempio la M42 appena superata, che però
non ha alternative). Mentre invece piccole strade, a volte
nemmeno riportate sulle mappe, hanno un asfalto perfetto e
consentono buone andature.
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Il
nostro ingresso in RUSSIA
avviene quindi facilmente solo grazie alle informazioni raccolte
sul posto, puntando a nord su una strada per noi prima inesistente
(non c’e’ sulle carte) invece che continuando verso Ovest
sulla M42 direzione Uralsk. Dopo quattro giorni trascorsi
con la moto sul camioncino, arrivati alla frontiera, Donatello
con la forza della disperazione, pur con il braccio ingessato,
riprende a guidare il Transalp. Dopo il controllo dei passaporti,
ci chiudono inspiegabilmente in un capannone. Venti lunghi
minuti di attesa senza capire cosa succede, poi arriva un
doganiere con un cane antidroga che fiuta con attenzione noi
e le nostre moto, e possiamo ripartire. I primi 100 km di
Russia si presentano a noi con ampie strade che affrontano
leggeri saliscendi, immerse in spaziosi paesaggi rurali di
cereali e foraggi. Ma anche venditrici di cocomeri e meloni
sulla strada con capelli biondi, occhi azzurri e fisici perfetti
che potrebbero stare su copertine patinate di prestigiose
riviste maschili. La mia moto è rimasta definitivamente
senza olio degli ammortizzatori in Kazakistan, e salta ad
ogni avvallamento come un canguro. Superato il fiume Ural
presso la città di Orenburg, siamo di nuovo in Europa.
Qui, per ovviare un poco al problema che quasi mi impedisce
di viaggiare, taglio via con un seghetto il baule posteriore.
Nella città, anche l'incontro con una simpatica coppia
di motociclisti del luogo che ci accompagnano all'hotel.
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Finalmente,
450 Km dopo, nella città di Samara
sul fiume Volga (area metropolitana di quasi un milione di
abitanti, se sommiamo anche la vicina Togliattigrad) riesco
a trovare un negozio di articoli per moto, il più fornito
della città. Qui però hanno in vendita solo
uno dei due ammortizzatori posteriori che andrebbero montati
su una moto indigena, le URAL. L’ammortizzatore, dal costo
irrisorio di 25 euro, sembra essere fatto apposta per la mia
vecchia BMW. Anche cambiandone solo uno, la ciclistica migliora
abbastanza ed il mio viaggio può riprendere con più
sicurezza. Alla sera, nei locali delle spiagge sul fiume,
centinaia di splendide ragazze a ballare o attorno ai tavoli
a gruppetti di due o tre, mentre bevono birra e sono intente
a fumare in maniera poco moderata, solitamente senza ragazzi
con loro. Non ne troviamo nessuna che parla una lingua diversa
dal russo, ed il loro interesse per noi è anche al
di sotto delle nostre aspettative, per cui il giorno dopo
ripartiamo senza rimpianti.
Il nostro gruppo di 5 motociclisti si divide nei pressi di
Saratov: in tre prendono una strada che li porterà
poi più a sud, io e Donatello ci dirigiamo più
rapidamente verso Ovest.
Ci separano dal mar Nero 1500 km di strade pressoché
rettilinee e sempre nel mezzo di spazi grandiosi. Volgograd,
ex Stalingrado, che pur meriterebbe una sosta per visitare
almeno la collina ed il museo in memoria della battaglia della
seconda guerra mondiale (in questa città morirono solo
da parte russa circa 600.000 persone, altrettanti tra i tedeschi)
la passiamo senza fermarci: la strada per il ritorno è
ancora lunga. Stessa sorte l'avevamo riservata la sera prima
a Saratov, città del primo cosmonauta
della storia, Yuri Gagarin, nelle vicinanze della quale un
monumento ricorda il punto dove questo rientrò sulla
terra dopo il suo viaggio spaziale. Ci concediamo una serata
a passeggio per Rostov sul Don, dove più
o meno troviamo la scena di bellissime ragazze intente a chiaccherare,
bere birra e fumare già vista a Samara. Questa volta
non sul lungofiume ma in uno splendido parco alberato con
piante centenarie che si snoda per una lunghezza di oltre
3 km esattamente nel centro della città, con una passeggiata
pedonale centrale ai cui lati ci sono anche locali e pizzerie
raggiungibili dalle automobili a passo d’uomo. Uno spazio
a misura d’uomo ed un mix tra natura e città che non
avevamo mai visto prima in nessuna altra metropoli europea.
Nelle nostre città, anche in quelle “migliori”, siamo
abituati a trovare i parchi alberati nettamente separati e
distinti dalle strade pedonali dove ci sono invece negozi
e locali, mai insieme e frequentabili ad ogni ora del giorno
e della notte. Da Rostov sul Don ci dirigiamo verso la Crimea,
passando prima da Anapa sul mar Nero, una
cittadina balneare troppo piena di gente, come può
essere la nostra Rimini o Riccione nello stesso periodo estivo.
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L’entrata
in UCRAINA avviene
grazie ad un piccolo traghetto che collega la località
di Port Kavkaz in Russia e Port Krym in Ucraina. Il nostro
sbarco avviene a sera avanzata. Nella prima città,
dove arriviamo che è già buio, Kerch,
viviamo una esperienza singolare. Dopo aver cercato a lungo
un hotel, troviamo finalmente il principale della città
che (come ci era già capitato di vedere in quasi tutte
le città dell’ex Unione Sovietica) porta lo stesso
nome. Alla reception ci sono due persone indaffarate al computer
in qualcos’altro che si vede perfettamente non c’entra nulla
con la loro presenza dietro al bancone. Sembrano sorprese
di vederci e cercano di spiegarci che non possiamo dormire
li, perchè non ci sono camere. L’hotel però
è evidente che è vuoto e ha tutte le possibilità
di ospitarci: noi insistiamo. Nella speranza che noi si rifiuti,
ci dicono allora che la camera c’è, ma non c’è
l’acqua calda. Dopo tanto cercare, noi non avevamo visto altri
alloggi in città e replichiamo con loro sorpresa che
a noi per quella sera la camera va bene anche così.
Sono ormai veramente seccati del fatto che noi si voglia a
tutti i costi fermarsi da loro e senza dare altre spiegazioni
ci dicono che la camera non c’è la danno. Prima che
noi si possa replicare altro ci anticipano che però
possono mandarci da una famiglia che ha camere in affitto.
Siamo nei guai e accettiamo l’offerta. Nel buio di una città
con poco o niente di illuminazione pubblica il portiere ci
precede con una bicicletta, senza fanali, e rischia più
volte anche di essere investito. Finalmente arriviamo in un
cortile tra fatiscenti condomini. Da uno di questi esce una
laida signora di mezza età che ci dice di parcheggiare
le moto e salire in casa sua. Io e Donatello ci guardiamo
molto preoccupati. Lui rimane alle moto, che non ci azzardiamo
assolutamente a lasciare incustodite in quel luogo con tutti
i bagagli, ed io salgo con la nostra ospite i 5 piani di scale
semidistrutte per vedere come è la situazione. In casa,
stanno facendo sloggiare i figli da una camera e riordinando
alla meglio quelli che dovrebbero essere i nostri letti per
quella notte, ma la situazione generale dell’appartamento
rende più che evidente che non è una casa predisposta
ad ospitare persone esterne. Ci viene chiesto per dormire
una cifra quasi più alta di quella che avevamo pagato
in confortevoli hotel nei giorni precedenti, ed anche se in
cuor nostro temiamo di non trovare altro dove fermarci, rifiutiamo
e ce ne andiamo, accompagnati dagli insulti in russo della
signora che evidentemente doveva avere un preciso accordo
con la reception dell’hotel statale per accalappiare gli sprovveduti
passanti con la scusa che quello è già pieno
o senz’acqua. Tentiamo una nuova ricerca chiedendo ad gruppo
di taxisti, i quali ci dicono tutti non sapere dove sia un
hotel. Tranne uno di loro che, guardato stranito dagli stessi
colleghi, ci dice di seguirlo con le moto che lui sa dove
si trova. Ci porta con l’auto fuori città e poi si
infila anche lui tra alti palazzi fino a quando ci indica
una porta ed una finestra illuminata di quello che però
è evidente è solo un condominio e non un hotel.
Siamo veramente arrabbiati per queste messinscene e dopo avergli
comunque dato qualche dollaro per la corsa onde evitarci ulteriori
problemi torniamo in città su una strada diversa. Un
colpo di fortuna, che ci porta a trovare un ristorante (con
annessa una piccola discoteca all’aperto affollata di giovani)
dove al piano di sopra ci sono camere molto carine. Nel frattempo
che la discoteca finisce il suo programma, noi ceniamo. E'
ormai notte inoltrata quando ci fanno mettere le moto al sicuro,
all’interno del giardino.
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La
Crimea è una penisola montuosa sul
Mar Nero con coste frastagliate e piccole spiagge incastonate
tra le scogliere che ricorda molto alcuni tratti di mare della
Sardegna o della costa meridionale della Turchia. La strada
è stretta e tortuosa. Piove e la nostra marcia in moto
verso ovest non è esaltante. Poco prima di arrivare
a Sebastopoli, passiamo da Yalta, rimasta
famosa nella storia per aver ospitato poco prima della fine
della Seconda Guerra Mondiale quelli che ormai si sapeva sarebbero
stati i vincitori (Roosevelt, Stalin, Churchill) in una conferenza
dalla quale uscì l’assetto dell’Europa con le rispettive
aree di controllo di USA e URSS che rimase in essere fino
ai giorni nostri. A Sebastopoli, nella nostra
ricerca dell’hotel, chiedendo ad un taxista viviamo una esperienza
quasi simile a quella vissuta la sera prima a Kerch, poi troviamo
da soli il centro e di conseguenza il grand hotel della città.
Il porto è carino, ci sono mercatini ed anche un bel
concerto di musica classica all’aperto, che però termina
quando noi alle 21.30 arriviamo nella piazza, convinti che
la serata sia appena iniziata. Alle 22 la città è
già deserta. L’indomani mattina ripartiamo verso nord
e sotto la pioggia battente attraversiamo l’istmo che collega
la Crimea al resto dell’Ucraina. Il paesaggio è comunque
molto particolare, il mare si mescola senza soluzione di continuità
alla terraferma in un ambiente lagunare dove alti canneti
e piccoli fiori rossi che tappezzano i prati nonostante la
pioggia ci regalano dei colori indimenticabili.
Odessa è una grande città,
con un centro storico ben conservato di epoca tarda ottocentesca,
famosa soprattutto per la immensa scalinata che scende verso
il porto, passata alla storia nel celebre film di S.Ejzenstein
“la corazzata Potemkin” che racconta la rivolta popolare del
1905 appoggiata dall'equipaggio ammutinato della nave zarista.
Famosa la scena della madre che scende con la carrozzina gli
infiniti gradini. Restiamo un giorno intero nella città:
il nostro visto per entrare in Moldavia fatto due mesi prima
è valido solo a partire da due giorni dopo. Il rientro
è andato più veloce del previsto, nonostante
l’incidente di Donatello in Kazakistan. Dopo un pomeriggio
passato a cercare con enormi difficoltà un internet
point e a girovagare a piedi senza meta tra centri commerciali
nuovissimi e palazzi d’epoca più o meno interessanti,
ci godiamo così la serata conclusiva della festa annuale
della città, con un grande concerto ai piedi della
scalinata e lo spettacolo pirotecnico sul lungomare.
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Tra
l’Ucraina e la Moldavia, esiste un territorio autonomo non
riconosciuto dalla comunità internazionale che da oltre
15 anni si definisce REPUBBLICA
DI TRANSNISTRIA. Due sono le città
importanti, Tiraspol e Tighina, il resto è una campagna
coltivata semi deserta. La storia di questa fantomatica repubblica
è singolare e trae le sue origini anche dalle politiche
sovietiche staliniste che istituirono le repubbliche socialiste
con l’intenzione di mantenere tensioni al loro interno, renderle
assolutamente ingovernabili senza l’autorità centrale
e tenerle economicamente dipendenti l’una dall’altra. Avevamo
già avuto modo di osservare questa situazione nei paesi
del Caucaso meridionale (Georgia, Armenia ed Azerbaijan, questi
ultimi due addirittura ancora in conflitto armato tra loro)
e nell’area dell’Asia centrale, dove le repubbliche che ora
costituiscono Turkmenistan, Uzbekistan, Kirghizistan e Tagikistan
furono create inserendo pezzi di territorio storicamente e
culturalmente di pertinenza del paese vicino, ed estromettendo
invece altre zone che ci sarebbero dovute rientrare. Ad esempio
l’area del Karakalpakstan con
la città di Konya Urgench che anche se uzbeka era stata
messa (ed ora è rimasta) all’interno del Turkmenistan,
mentre invece diventava Uzbekistan tutta l’area intorno a
Samarcanda, la cui collocazione appropriata vista la sua storia,
la lingua e la cultura dei suoi abitanti sarebbe stata il
vicino Tagikistan. Dopo la seconda guerra mondiale in questa
fetta di Europa successe la stessa cosa. Nel 1944 al momento
di creare la Repubblica Socialista di Moldavia una piccola
superficie popolata in maggioranza da abitanti con cultura
russa ed alfabeto cirillico, posta ad est del fiume Nistru
(da qui il nome Trans-nistria) fu annessa ai territori della
Moldavia sottratti dall’URSS alla Romania, dove invece si
parlava rumeno, una lingua latina, e c’erano tradizioni e
costumi che non avevano nulla a che fare con il russo. Il
27 gennaio 1990 con un referendum questa piccola regione ad
est del fiume fu la prima in assoluto tra tutte le regioni
sovietiche a dichiararsi entità indipendente, ma non
fu riconosciuta dal resto dei paesi del mondo. Nei mesi successivi,
furono le Repubbliche Baltiche e le altre Repubbliche Socialiste
dell’ormai ex-URSS a dichiararsi indipendenti. Tra le quali,
quasi un anno e mezzo più tardi della Transnistria,
il 24 agosto 1991, la Moldavia. Questa però, non accettando
la situazione di autonomia creatasi a Tiraspol, definì
i suoi confini internazionali comprendendo al suo interno
anche quei territori, e cercò di riprenderne il controllo
amministrativo. La Russia però aveva interesse a mantenere
il controllo di questa regione, nella quale erano concentrate
molte fabbriche di armi ed una armata, la 14°, molto numerosa
e ben equipaggiatai. Grazie alla superiorità delle
forze russe a Tiraspol su quelle Moldave, la Transnistria
resistette senza problemi al conflitto armato con la Moldavia,
ma seguirono negli anni successivi continue tensioni, alcune
anche sanguinose. Le tensioni coinvolgono anche la vicina
Ucraina da qualche anno filo-europea. In questa situazione
di stallo e tensione internazionale l’economia di questo "paese"
si è spostata dai normali commerci ai traffici più
illegali, soprattutto di armi, e l’area è considerata
a rischio per i turisti, in quanto non esistono tutele all’eventuale
strapotere di militari ed autorità varie e si vocifera
di mancanza di rispetto per elementari diritti civili.
La strada diretta che collega Odessa alla Romania passa però
da questa regione indipendentista, e quindi non c’è
modo di evitarla se non allungando di diverse centinaia di
km ed almeno due giorni il percorso verso l'Europa. Forti
di questa motivazione (o più probabilmente spinti da auto-lesionismo
conseguente ad eccesso di spirito di avventura) il 4 settembre
io e Donatello ci presentiamo alla frontiera tra UA e Transnistria
chiedendo come se niente fosse di entrare, mostrando il nostro
visto di transito valido per la Moldavia. I militari si oppongono,
ma alla fine la nostra insistenza prevale ed accettano il
nostro ingresso. Ma non sappiamo cosa ci aspetta : il doganiere,
dopo che ha ritirato la nostra dichiarazione di possesso della
valuta, ci accompagna in una piccola stanza e ci ordina di
mettere sul tavolo tutti i soldi che abbiamo. La somma che
portiamo ancora con noi è molto diversa da quel che
abbiamo scritto su quel foglio a cui avevamo dato poco valore.
La nostra dichiarazione doganale fatta in fretta senza pensare
alle possibili conseguenze è quindi "molto imprecisa".
Il doganiere con la divisa dell'armata russa (con tanto di
falce e martello ancora sul berretto) vuole tenere per lui
tutti i soldi che risultano in più rispetto al dichiarato.
La somma che ci vuole "sequestrare" è veramente
elevata, e noi non ci stiamo. Trascorrono minuti di fortissima
tensione: il doganiere chiama in aiuto un collega, la nostra
resistenza fisica allo "scippo" quasi diviene per
loro un motivo per procedere ad un nostro arresto. Ma poi
riusciamo ad uscirne indenni, lasciando però sul tavolo
200 euro a testa per i funzionari. Un buon risultato, rispetto
al sequestro di tutta la somma rischiato. Risolta quella situazione,
appena ci lasciano uscire fuggiamo letteralmente dalla dogana,
ma solo per entrare dentro alla tana del lupo. Siamo veramente
spaventati: due km dopo la frontiera, imboscati dietro ad
una siepe, nascondiamo tutti i soldi che abbiamo in luoghi
impensabili dentro allla moto. Poi aggiriamo Tiraspol
senza entrare in città, per evitare di incontrare altri
militari o poliziotti. Ma ad un certo punto la nostra strada
verso Chisinau, che ormai anche il navigatore ci dice che
e' poco distante, e' interrotta da una sbarra. Al di la' di
questa, sulla destra, un vagone ferroviario appoggiato per
terra. Un centinaio di metri piu' avanti, oltre il vagone,
un'altra sbarra ed un carro armato di traverso nel mezzo della
strada. Dal vagone ferroviario spuntano stupiti due giovani
militari, i quali dopo averci dato le istruzioni per trovare
la strada per arrivare in Moldavia, ci sottopongono a perquisizione
dei bagagli e ci chiedono per collezione (ahahahah) altri
euro. Qui per fortuna ce la caviamo con poche monetine. Seguendo
le loro indicazioni, superiamo con gioia il fiume Nistru,
che crediamo il confine con la Moldavia, ma poi scopriamo
invece che anche la citta' di Tighina e'
sotto il controllo degli indipendentisti e ci torna l'ansia.
Al posto di blocco in uscita dalla Transnistria, il militare
al comando sembra allibito e ci dice che la nostra presenza
in quel posto non è una cosa possibile: e' vietato
agli stranieri attraversare il territorio della Transnistria
entrando dalla Ucraina. Ci ordina di tornare indietro fino
ad Odessa, sulla strada da noi percorsa finora. Ma noi siamo
assolutamente decisi a lasciare quel paese in quel posto,
e a non ripassare laddove ci avevano "rapinato".
Iniziamo una nuova trattativa, agevolata dalla migliore conoscenza
dell'inglese del funzionario rispetto ai suoi colleghi, nella
quale ci inventiamo una nostra solidarietà per il loro
stato di regione non riconosciuta dal resto del mondo. E cosi',
dopo un po' di tempo e dopo una ennesima perquisizione (al
solito, scrupolosissima) dei nostri bagagli ) riusciamo finalmente
ad uscire dalla Transnistria. Ovviamente
con il pagamento ai funzionari di una somma in dollari che
però in quel momento ci appare anche più piccola
del reale, preparati come eravamo ad un altro salasso.
Dopo le peripezie vissute quel giorno in Transnistria, il
ritorno verso casa ci pare ormai cosa fatta. Superata la triste
Chisinau, capitale della
MOLDAVIA, e i pittoreschi paesi della
campagna circostante, raggiungiamo il confine con la Romania,
dove entriamo senza alcun problema.
|
|
Alla
frontiera la mia strada si divide da quella di Donatello,
che prima di salutarmi per dirigersi verso Iasi
salva nel suo PC portatile i dati delle mie tracce del navigatore
GPS, che ci serviranno poi in seguito per analizzare attimo
per attimo tutto il nostro percorso.
In ROMANIA,
quattro giorni saranno per me sufficienti per un giro di ricognizione
su luoghi molto ben conosciuti, dal Delta del Danubio
a Brasov, da Cluj Napoca
al Maramures. Con anche l'imprevisto per
me, ormai in viaggio da solo, di restare senza benzina nella
moto sulla strada tra Cluj e Zalau. Fortunatamente
a soli 2 km da un distributore e vicino ad un negozietto di
alimentari, dove posso acquistare una bottiglia per trasportare
a piedi quel poco di benzina necessaria a raggiungere poi
la pompa.
Dal Maramures entro in UNGHERIA:
un pernottamento a Debrecen ed un pomeriggio
a Budapest a trovare una amica sono più
che sufficienti.
Dopo la veloce traversata ungherese, in SLOVENIA
trascorro una serata a Liublijana
con amici motociclisti italiani, in visita sul posto per il
weekend.
Gli ultimi due giorni di viaggio li trascorro prima a Udine
ospite di amici, poi e sulle montagne a nord di Verona,
partecipando con loro ed altri motociclisti ad un incontro
domenicale.
Il giorno dopo sono già al lavoro. La mia moto rimane
in garage nelle condizioni nelle quali sono arrivato per diversi
giorni, quasi che dovesse essere sempre pronta a ripartire
e la mia sosta a casa fosse solo un momento nel viaggio, come
lo erano state le soste nelle città uzbeke, del Kazakistan
o della Russia. Agli amici che sembrano meravigliati per quella
che ai loro occhi sembra una impresa impossibile mi trovo
nei mesi seguenti a dare la seguente risposta: fare raid e
viaggi così lunghi in moto, anche in posti così
lontani, non è questione riservata a persone speciali.
E' una cosa possibile assolutamente per tutti, ed è
legata soprattutto alle priorità che noi ci siamo dati
nella nostra vita. Salvo casi particolari, sono quasi sempre
nostre scelte quelle che limitano il tempo che ci rimane a
disposizione per realizzare i nostri desideri.
Avere tempo a disposizione è l'unica
cosa che è veramente indispensabile per realizzare
un sogno come quello che si è concretizzato per me,
arrivare a Samarcanda e tornare a casa con la mia moto.
Prendetevi anche voi il vostro !!
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LE TAPPE DEL VIAGGIO
28
luglio 2006 |
casa
- Ancona |
280 |
29
luglio |
Ancona
- Brindisi |
590 |
30
luglio |
navigazione
verso Turchia |
0 |
31
luglio |
Cesme
(TR) - Afyon |
423 |
01
agosto |
Afyon
- Bogazkale - Sivas |
742 |
02
agosto |
Sivas
- Sumela Monastry - Cayeli |
597 |
03
agosto |
Cayeli
- Kutaisi (GEO) - Bakuriani |
427 |
04
agosto |
Bakuriani - Gori - Tbilisi |
194 |
05
agosto |
Tbilisi
- Lagodehi (AZB) - Baku |
594 |
06
agosto |
Baku
- Penisola Absheron - Sumqait - Baku |
240 |
07
agosto |
Imbarco
traghetto Mar Caspio |
0 |
08
agosto |
Turkmenbashi
(TM) - Balkanabat |
196 |
09
agosto |
Balkanabat
- Ashgabat |
442 |
10
agosto |
Asghabat
- Tolchuka bazar - Erbent - Darvaza |
271 |
11
agosto |
Darvaza
- Nukus (UZB) |
315 |
12
agosto |
Nukus
- Khiva |
198 |
13
agosto |
Khiva |
0 |
14
agosto |
Khiva |
0 |
15
agosto |
Khiva
- Buchara |
458 |
16
agosto |
Buchara |
0 |
17
agosto |
Buchara
- Sashsribaz - Samarcanda |
368 |
18
agosto |
Samarcanda |
0 |
19
agosto |
Samarcanda |
30 |
20
agosto |
Samarcanda
- Tashkent |
327 |
21
agosto |
Tashkent |
0 |
22
agosto |
Tashkent |
0 |
23
agosto |
Tashkent
- Turkestan (KAZ) - Kizylorda |
592 |
24
agosto |
Kizylorda,
incidente Donatello |
120 |
25
agosto |
Kyzylorda
- Aralsk |
476 |
26
agosto |
Aralsk
- M42 distrutta - Aktobe |
623 |
27
agosto |
Aktobe
- Orenburg (RUS) |
282 |
28
agosto |
Orenburg
- Samara |
449 |
29
agosto |
Samara
- sulla strada a sud di Saratov |
643 |
30
agosto |
sulla
strada a sud di Saratov - Volgograd - Rostov na Dunu |
633 |
31
agosto |
Rostov
na Dunu - Anapa - Kerch (UA) |
574 |
01
settembre |
Kerch
- Feodosia - Jalta - Sebastopoli |
381 |
02
settembre |
Sebastopoli
- Simferopol - Odessa |
663 |
03
settembre |
Odessa |
0 |
04
settembre |
Odessa
- Tiraspol (Transnistria) - Chisinau (MD)
- Galati (RO) |
474 |
05
settembre |
Galati
- Tulcea - Brasov |
483 |
06
settembre |
Brasov
- Sighisoara - Turda - Cluj Napoca |
294 |
07
settembre |
Cluj
Napoca - Sighetu Marmatiei - Debrecen (H) |
494 |
08
settembre |
Debrecen
- Budapest - Liublijana (SLO) |
730 |
09
settembre |
Liublijana
- Udine (I) |
257 |
10
settembre |
Udine
- Monti Lessini - Casa |
388 |
45 GIORNI |
14 FRONTIERE
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15.228 |
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